Mentre nel bacino mediterraneo la cultura classica elaborava le proprie concezioni religiose spesso modellandole sulle proprie esigenze politiche, nel grande nord, abitato da antichissimi popolazioni celtiche e dalle relativamente più recenti popolazioni scandinave, l’assenza di strutture statali strettamente codificate e stabili lasciava mano libera allo sviluppo di religioni, inizialmente legate alla natura, solo apparentemente “semplici” o assimilabili all’antropomorfizzazione deistica greco-latina, ma, in realtà, di una complessità e profondità simbolica stupefacente.
Né, d’altra parte, ci si sarebbe potuto aspettare qualcosa di diverso da un popolo come, ad esempio, quello dei Celti che, a buon diritto si può considerare alla base di gran parte delle concezioni archetipiche del mondo occidentale[1].
Per quanto riguarda la loro religione, il primo concetto da tener ben presente per comprenderla realmente è che, per circa un terzo della loro storia (per tutto il periodo che possiamo definire “protostoria”), i Celti sono stati nomadi impegnati in una lenta e lunghissima migrazione dall’India settentrionale verso occidente. Di conseguenza, il loro sistema spirituale si è sviluppato relazionandosi a tale stile di vita e basandosi su esso.
Forse soprattutto da questo deriva la formazione di una religiosità fondata sul contatto con la natura, sul suo rispetto e sul sentirsi sua parte integrante, in un abbandono quasi fatalista al suo corso naturale[2]. D’altra parte, è questa una caratteristica tipica di numerose civiltà non stanziali dell’età del bronzo e non sembra affatto un caso che la religione celtica mostri moltissime affinità con altre religioni di culture indoeuropee con cui i Celti erano sicuramente venuti a contatto, in particolare con quella scita.
Gli elementi principali su cui tutto il sistema si fonda sembrano apparentemente piuttosto semplici: la reincarnazione della vita, la rigenerazione, la resurrezione e la sacralità di alcune piante, viste come tramite con il firmamento e separazione tra uomo e dei celesti (non a caso attorno ad ogni villaggio c’erano boschi sacri, detti “drynemeton” dove avevano luogo i riti sacri).
Ovvio corollario di una tale “naturalità” religiosa (e del nomadismo che, essenzialmente, ne è causa fondante) è la mancanza di edifici di culto: spesso pensiamo che menhir, dolmen e cromlech sparsi per l’Europa siano state costruzioni celtiche, ma, in realtà, tali strutture furono di almeno 1000 anni precedenti alla penetrazione protoceltica e, semplicemente, i Celti si limitarono a utilizzare ciò che trovarono sul loro cammino, assimilando tali edificazioni liturgiche (in effetti, comunque, la loro primaria funzione religiosa rispetto a possibili altre funzioni, probabilmente di stampo scientifico-astronomico, è tuttora oggetto di studio) a una sorta di “bosco sacro” in pietra, unione tra dei e uomini[3].
Questo, come detto, non ci deve far minimamente pensare di essere di fronte ad una religiosità di tipo primitivo. Le concezioni di fondo sono solo apparentemente elementari, ma, in radice, si fondano su speculazioni filosofiche di livello tale da dover essere semplificate per adattarsi al popolo minuto: abbiamo, così, due livelli religiosi ben distinti, uno popolare ed uno alto.
Per quanto riguarda la religiosità popolare, essa era costituita da una mitologia accessibile e da una serie di riti che avevano pian piano inglobato anche alcuni elementi arcaici risalenti al neolitico e provenienti da culti solari, tellurici e lunari. Come proprio della maggior parte dei culti indoeuropei, veniva praticato il politeismo, con un pantheon formato addirittura da 374 divinità. In effetti, molte erano copie di altre, per cui possiamo in effetti parlare di circa 60 dei veri e propri, per lo più impersonificazioni di eventi naturali.
Il dio più importante di tutti era Lug (in onore del quale vennero fondate Lione e Leida), un dio-druida in grado di suonare l’arpa, lavorare il ferro, combattere da valoroso, fare magie. Da lui, in una fase di difficile determinazione, derivò il culto di una triade di suoi (presunti) discendenti Teutate, Eso e Tarani (Teutate era il più potente e si placava con sacrifici di sangue, Eso era identificato con il toro, anche egli assetato di sangue e Tarani era il dio della guerra e, per i sacrifici a lui offerti, preferiva il rogo), che ricorda molto da vicino la trinità divina germanica Wotan-Odino, Donar-Thor, Ziu-Tyr, ma che non necessariamente ha punti di origine comuni con essa (il concetto di trinità è, in effetti, molto ricorrente nelle religioni dei popoli di origine orientale). Successivamente, comunque, Lug assunse una prevalenza definitiva su tutti gli altri dei e, nel culto popolare, venne sempre più affiancato da eroi locali divinizzati (il più importante sarà l’irlandese Cu Chulainn)[4]. Agli dei, nei boschi sacri, contraddistinti da recinzioni, o presso pozzi appositamente scavati e forse collegati al culto della terra, si sacrificava di tutto, dagli oggetti (presso alcuni pozzi sono state trovate anche armi e vasellame) agli esseri umani (nemici, schiavi e, in qualche caso, anche uomini liberi), sia nel tentativo di ingraziarseli, sia in quello di ottenere predizioni (la divinazione era la pratica magico-religiosa più diffusa), sia, infine, in quello di mitigare i numerosissimi “geasa” (tabù) che limitavano la vita di chiunque[5].
Ben differente era la religiosità “alta”, propria delle classi intellettuali (bardi, indovini e, soprattutto, druidi e sacerdotesse druide): l’idea di fondo era che la vita, con il suo fluido, la sua forza chiamata “oiw”, permeasse ogni cosa. Tutte le manifestazioni della natura, anche quelle più violente, erano vissute come un’ incarnazione di tale energia assoluta che presiedeva alla creazione e alla distruzione del mondo, in un processo ciclico di nascita e morte che si rinnovava continuamente e da cui derivava il concetto della reicarnazione. Da questa concezione ciclica dei tempi e degli eventi e non dalla paura o dalla superstizione (comunque ben presente a livello popolare) nasceva l’assoluto rispetto per la natura, vista, in un’ottica che con la sua prossimità all’induismo non può che avvalorare una origine asiatica dei celti, come possibile sede di reincarnazione[6].
In realtà, comunque, più che di ciclicità vera e propria sarebbe più consono parlare di continua evoluzione.
Il divino stesso era visto come un principio in perenne evoluzione che si manifestava in quattro stadi (o mondi) diversi: dal centro (Oiw assoluto) si passava, attraverso cerchi concentrici, allo stadio della conoscenza spirituale, poi al mondo fisico, infine allo stato della materia incorporea inanimata. Più che alla trasmigrazione da un corpo all’altro, allora, i celti credevano in un passaggio tra stadi di conoscenza e consapevolezza diversi, ottenibile tramite iniziazione. Il corpo del defunto entrava nel mondo dell’ invisibile dove manteneva la memoria dell’ esistenza terrena e grazie a questa, poteva entrare in contatto con i vivi, in particolari momenti dell’anno (Samhain); poi la memoria andava via via affievolendosi fino all’oblio definitivo, che apriva le porte o all’immortalità o di nuovo al mondo fisico. Da questo processo traeva senso la divinazione, spesso ottenuta tramite trance: il veggente, in uno stato di coscienza alterata, entrava in contatto con i morti o con gli dei, che, nel continuum spazio-temporale celtico, vivevano semplicemente in uno spazio parallelo (ctonio per i morti, empireo per gli dei, con i quali il contatto era possibile anche tramite l’osservazione degli astri) da cui era possibile vedere ciò che alla vista umana era precluso (pur essendo comunque già esistente, con una concezione del futuro simile ad una sorta di “presente prossimo”)[7].
Naturalmente, per scavalcare le barriere naturali e seguire le vie dell’oiw, era necessaria una grande sapienza ed una profondissima preparazione, riservata unicamente alla classe sociale più elevata della società celtica, quella druidica.
E’ proprio questa preminenza della sfera religiosa su quella politica che dà ragione della completa “spiritualizzazione” della vita sociale dei Celti, una spiritualizzazione che, però, a differenza di quella delle popolazioni mesopotamiche ed egiziane, mantiene nettamente separate le funzioni relative ai due ambiti, pur ammantando di spirito religioso tutte le azioni, incluse quelle relative alle attività belliche e di governo: in sostanza, pur essendo entrambe espressioni dell’oiw (come, d’altra parte, ogni altra cosa), religione e politica rimangono espressioni differenti, atte a persone differenti, da un lato i druidi, dall’altra i guerrieri.
Il corollario di ciò è la relativa libertà espressiva del culto e della costruzione mitologemetica, che non devono dare conto delle proprie posizioni ad alcun potere politico superiore, ma che, a loro volta, non finiscono con l’omogeneizzarsi con tale potere.
La conseguenza, in ambito escatologico, è la piena libertà di costruire un sistema a sé stante, il cui unico vincolo è l’osservazione druidica della realtà e della natura dell’oiw così come visibile nelle sue manifestazioni più evidenti[8].
E ciò che appare chiaro a chiunque osservi anche distrattamente i cicli della natura è che tutto ciò che ha un inizio deve per forza avere una fine e che, dunque, anche l’universo, avendo cominciato ad esistere in qualche momento imprecisato del continuum spazio-temporale, dovrà necessariamente un giorno avere termine allorché l’oiw stesso, che pure infonde la vita ad ogni creatura esistente, esaurirà la propria carica vitale.
Proprio sulla base di una tale osservazione di principio, i druidi costruirono una intera strutturazione mitologico-cosmogonica che desse conto proprio dell’inevitabile esaurirsi dei tempi.
Purtroppo, però, a differenza dei Greco-Latini, con la loro ricchissima letteratura, i Celti, che avevano una cultura prettamente orale, non ci hanno lasciato testimonianze scritte relative alle loro credenze e le uniche fonti a nostra disposizione sono quelle di seconda mano del mondo classico e quelle tarde di monaci cristiani gallesi e irlandesi[9]. Attraverso di esse, nonostante le palesi limitazioni che impongono alla nostra analisi, possiamo farci un’idea piuttosto precisa del sistema cosmologico celtico.
Per quanto riguarda la creazione, possiamo arguire che il dio Esus (o figure corrispondenti, come Lug, in altre aree della cultura celtica), secondo il mito più diffuso, facesse accovacciare, in compagnia della “Triplice Dea” (qui in forma di uccello), il “toro cosmico” sotto l’albero del mondo e dal suo corpo la terra e l’ordine delle cose avesse origine.
Da quel momento in poi, come accennato anche nel Mabinogion[10], diversi dei contribuirono all’aspetto attuale della terra (dall’abbeverarsi di una dea alle fonti sacre nacquero i fiumi, dal lancio di massi da parte dei giganti le montagne, etc.)
Successivamente, alcune fonti riportano la presenza di una sorta di “Guerra nei cieli” (presente anche nella mitologia greco- romana e norrena) tra i “Fomori” (qui nelle vesti di una sorta di titani) e i “Tuatha Dé Danann” (gli dei veri e propri, guidati da Lug), probabile retaggio di qualche antica faida tra grandi clan (e, infatti, nel Mabinogion, quella che probabilmente è la stessa vicenda viene legata alla guerra tra le famiglie dei Llŷr/Annwfn e la famiglia dei Dôn), la qual cosa ci dice di quanto della religiosità popolare celtica derivi anche dalla mitizzazione di eventi storici reali.
Fondamentale (anche se non abbiamo certezze assolute e definitive a tale riguardo) all’interno dell’architettura universale doveva essere anche la concezione di “Albero del mondo” (una sorta di versione celtica dello Yggdrasil norreno), detto “Bile”, lungo il quale correva l’asse del mondo, che sosteneva i “tre reami” tradizionali (terra, mare e cielo), simmetricamente riflessi nel mondo dell’aldilà, cioè nell’area di passaggio in cui le anime dovevano soggiornare prima della reincarnazione e da cui, come possiamo presumere attraverso l’interpretazione simbolica di alcuni miti, gli esseri umani dovevano originariamente provenire[11].
La concezione dell’”albero del mondo” ci introduce nel nebuloso mondo dell’escatologia celtica.
Anche riguardo a questo argomento specifico, non possiamo non lamentare la scarsità delle fonti dirette. L’unico testo tradizionale che ci parli di situazioni escatologiche è, infatti, il La Seconda Battaglia di Magh Turedh, in cui, subito dopo che i Tuatha Dé Danann hanno sconfitto i Fomori, Morrigan fa una profezia riguardo alla fine del mondo:
“Io non vedrò un mondo che mi sarà caro:
le estati saranno senza fiori,
il bestiame senza latte,
le donne senza modestia,
gli uomini senza valore,
i sudditi senza un re,
i boschi senz’alberi,
il mare senza pesci.
I vecchi non sapranno più giudicare,
gli avvocati porteranno false prove,
ogni uomo sarà traditore,
ogni ragazzo sarà riottoso,
il figlio entrerà nel letto del padre
e il padre nel letto del figlio,
ciascuno sarà cognato di suo fratello…
I tempi saranno malvagi:
il figlio tradirà il padre,
la figlia la madre.“[12]
Siamo qui di fronte ad una tipica descrizione di una situazione di caos sociale, il che ci potrebbe far pensare ad un classico meccanismo retributivo/punitivo presente in pressoché ogni costruzione escatologica: il male esiste e continuerà a crescere fino al momento in cui gli dei, stanchi dell’umanità, decideranno di porre fine all’umanità degenerata. Purtroppo, però, nulla ci assicura che quanto espresso in questo brano sia effettivamente ciò che i Celti comunemente pensavano e non una semplice opinione dell’anonimo estensore del testo.
Fortunatamente, come detto, abbiamo altre fonti, per quanto indirette, a nostra disposizione, anche se esse appaiono piuttosto contraddittorie.
Strabone scrive: “Non solo i druidi, ma anche il popolo comune ritiene che l’anima umana e l’universo siano indistruttibili, sebbene un giorno il fuoco e l’acqua prevarranno su di essi“[13], mentre lo storico greco Arriano, trattando di Alessandro Magno, afferma che quando il re chiese a un gruppo di Celti noti per la loro ferocia che cosa temessero, essi rispose “Niente al mondo, se non che i cieli potessero cadere sulla loro testa“[14].
Probabilmente, però, la contraddizione tra le due versioni è solo apparente. Tenendo conto che la caduta dei cieli dovrebbe essere provocata dal crollo del “Bile”, dell’asse del mondo, la domanda che ci dobbiamo porre riguarda le cause che dovrebbero provocare tale evento. Ancora una volta, non abbiamo dati certi, ma possiamo solo fare supposizioni.
Come avremo modo di analizzare, nel Ragnarok germanico-norreno, troviamo una seconda battaglia tra dei e titani, l’incendio dello Yggdrasil, la lotta tra Thor e il serpente “infernale” e, probabilmente, un nuovo mondo che promana dal caos, in una idea sostanzialmente ciclica della natura del cosmo che ricorda da vicino le teorie induiste della fine del Kali Yuga: per similarità possiamo ritenere che proprio ad un’epoca di stravolgimenti naturali si riferisca Strabone e che questa epoca provochi la distruzione del “Bile” e la conseguente caduta del cielo[15].
Una inferenza di questo genere è possibile proprio sulla base della evidente consonanza tra la mitologia religiosa hindu e quella celtica (ricordiamo che i Celti provenivano originariamente dal nord dell’India), una consonanza tale per cui, ad esempio, le vicende di Lug Lamhfhada appaiono chiare riprese di vicende analoghe di Vishnu, anche per quanto riguarda l’essere entrambi guardiani proprio dell’albero del mondo ed essere coloro che, nei rispettivi eschaton, gli daranno fuoco, mentre il ruolo della divinità gallica Smertrios, il dio della guerra che, alla fine dei tempi, uccide il serpente primigenio, richiama da vicino quello del dio del tuono indiano Indra, che uccide il dragone Vritra in circostanze analoghe (e del dio scandinavo Thor, che, vedremo, nell’Edda perisce uccidendo l’enorme serpente Jormungand durante il Ragnarok, mostrando una netta matrice comune dei tre sistemi mitologici)[16].
A questo punto possiamo cominciare a tirare le somme delle evenienze dell’eschaton celtico.
Il primo dato di cui dobbiamo tener conto è la netta distinzione tra mondo religioso e mondo laico, una distinzione che, quasi paradossalmente, promanando dalla spiritualizzazione di ogni ambito della vita e, conseguentemente, dalla superiorità del primo sul secondo, permette un notevole libertà elaborativo-escatologica da parte dei druidi. Tale libertà elaborativa risulta nella oggettiva osservazione della finitezza del reale e, a livello alto, si articola nella semplice constatazione della possibilità di esaurimento dell’oiw, cioè della forza generativo-vitale universale.
A livello popolare, tale constatazione, di per sé non ulteriormente specificata, deve essere ammantata mitologicamente e ciò avviene attraverso una sorta di ripresa di elementi primigeni di radice indo-europea che portano a specificazioni ulteriori di stampo etico-morale, inutili per la classe sacerdotale ma fondamentali per l’ammaestramento del popolo.
Così, l’intera teorizzazione escatologica si configura, a livello popolare, come una sorta di grande parabole morale che vede l’esaurimento dell’oiw come conseguenza della progressiva perdita dei valori edenici originali di etica sociale e, quindi, sostanzialmente, come un sistema retributivo collettivo di stampo molto prossimo a quello dell’escatologia ellenica, con la sua conseguente valenza ordinativa del caotico.
Di particolare interesse, è proprio questa sorta di doppia valenza dell’eschaton celtico, di osservazione naturale moralmente neutra per la “casta” druidica e di memento morale per il popolo, una doppia valenza che ci dice di una religione con connotazioni pesantemente esoterico-iniziatiche, volte probabilmente alla perpetuazione del potere sociale del nucleo spirituale dominante, svincolato dai comuni legami etici che accompagnano ogni situazione di orientamento retributivo[17].
Un sistema “ab origine” piuttosto similare è riscontrabile anche all’interno della strutturazione religiosa norrena, ma, nel quadro di una società improntata ad un maggior grado di democraticità, tipico delle popolazioni di stirpe germanica, la distinzione tra gruppi sociali si fa, anche in termini religiosi ed escatologici, più labile.
Per rendercene conto, diamo uno sguardo d’insieme al sistema spirituale germanico-norreno-vichingo.
Come visto per la religione celtica, la religione vichinga classica (a detta di alcuni sviluppata al termine dell’Età del Bronzo e piuttosto differente dai sistemi spirituali nordici precedenti[18]), che con ogni probabilità proprio da essa (e, conseguentemente, dai culti indoeuropei, con origini relative all’area scita-iranica) ha subito sin dalla sua nascita pesanti influenze, si struttura come un sistema di pensiero fortemente realistico, presentando numerose commistioni con il mondo reale vissuto dal popolo e numerosi riferimenti alla vita quotidiana ed agli elementi naturali che accompagnavano la vita quotidiana.
Al suo interno, il corrispettivo dei druidi era dato dai sacerdoti o “rusii”, detti “attiba” che, però non risultavano essere gli unici depositari di un sapere superiore e il cui compito era, essenzialmente, solo quello di svolgere i riti sacrificali durante le cerimonie. Questi avevano luogo all’aperto, in pieno stile celtico, e venivano costituiti da sacrifici di animali ed esseri umani, i cui cadaveri erano esposti appesi ad alberi. Tali alberi, richiamati anche simbolicamente dall’utilizzo di pietre megalitiche su cui venivano apposte scritture runiche, rappresentavano l’albero sacro, l’enorme frassino Yggdrasil che aveva le radici negli inferi e la sommità nel cielo e che, insieme al Bifrost, il bellissimo ponte che univa l’Asgard celeste e il Midgard terrestre, stava a significare la continuità tra la due realtà cosmiche[19].
Tali realtà erano parte del grande piano universale descritto nella grande cosmo-teogonia narrata nell’antichissimo poema Voluspa[20]. Secondo il Voluspa il primo essere animato a comparire fu il gigante Ymir, nato dallo scontro tra il ghiaccio del mondo settentrionale, detto “Niflheim”, ed il fuoco del mondo meridionale, detto “Muspelheim”. Ymir abitava nella Terra di Nessuno ed ebbe come compagna una mucca, Audumla. Da questi nacque la prima coppia di giganti che ebbero come figlia Bestla. Questa si unì a Bor, nato da Audumla e dai due nacquero Odino, Vili e Ve, che uccisero Ymir e fecero il mondo: con il cranio del gigante fu fatta la volta celeste, con il cervello le nuvole, con il sangue il mare e con la carne e le ossa la terra. Essi inizialmente andarono ad abitare tra il cielo e gli inferi, nel Midgard (Terra di Mezzo), mentre ai giganti assegnarono l’Utgard (Terra alla Periferia), ma poi, alla nascita del genere umano, a cui il Midgard venne lasciato, si trasferirono nell’Asgard (Terra Superiore). Qui vi era una sala enorme, ove gli dei potevano fumare, bere idromele, giocare a scacchi e osservare il mondo da loro affidato ai discendenti di Askr ed Embla, i due primi esseri umani, da essi creati soffiando sull’Yggdrasil[21].
Da religione realistica e sviluppata da un popolo che teneva le questioni militari in altissimo conto, la spiritualità vichinga non poteva non prevedere una sorta di archetipo bellico, rappresentato da uno scontro epico iniziale tra due fazioni di divinità: gli dèi Asi e i Vani. Sempre secondo il Voluspa questa guerra si concluse con un’insperata pace e un accordo che prevedeva uno scambio di ostaggi tale per cui alcuni Vani, il padre Njörd, suo figlio Freyr e sua figlia Freyja (divinità queste simboleggianti ciascuna: la fertilità della terra, la vita sessuale e la vita amorosa) si trasferirono a vivere ad Asgard, presso gli Asi.
Secondo la leggenda, per sigillare la pace i due gruppi sputano di comune accordo su di un recipiente e da esso venne plasmato un uomo, Kvasir, di straordinaria saggezza, il cui destino, però, fu presto segnato: due nani lo uccisero, distribuendo il suo sangue in tre recipienti diversi, in cui vi mescolano del miele formando così “l’idromele di poesia e di saggezza“[22], per poi raccontare agli dèi che Kvasir era soffocato nella propria saggezza, non essendovi stato alcuno capace di esaurirla con le sue domande[23].
Molti studiosi propendono col ritenere che questa guerra tra gli dèi Asi e Vani sia lo specchio di un analogo conflitto tra due popolazioni umane, laddove i Vani corrispondono ad una stirpe più originaria e pacifica, mentre gli Asi ad una venuta dopo e decisamente più guerresca[24].
Lo studioso di religioni francese Georges Dumézil, invece, non è di questo avviso. Questi frappone alla tesi storicizzante la sua tesi strutturalista[25], secondo la quale Asi e Vani sono divinità che si presuppongono reciprocamente come complementari, cosicché gli uomini hanno bisogno di affidarsi sia agli uni che agli altri: anche se Dumézil stesso non nega una certa veridicità della tesi storicizzante, che riflette davvero un mondo che esisteva già prima degli Indoeuropei, poi divenuti Germani, ritiene che persino le popolazioni più antiche necessitassero sia di un tipo di divinità pacifiche che di altre bellicose, a cui rivolgere i loro tributi a seconda dei casi.
Di fatto, comunque, quasi tutte le principali divinità appartenenti al pantheon nordico erano del gruppo degli Asi: Odino (considerato signore del cielo, seduttore, duce nelle battaglie con il suo cavallo Sleipnir, dio dei morti, poeta, mago, conoscitore dei misteri dopo che aveva dato uno sguardo alla fonte della conoscenza, cosa che gli costò la perdita di un occhio, personaggio cupo e malinconico, amante della poesia e della musica), Thor (conosciuto come Tur dai normanni, il dio più venerato dai nordici, perché più vicino alle loro esigenze e non aristocratico come Odino, uomo possente che dimorava in un palazzo di 140 sale, mangiava molto e beveva barili di idromele, spesso dipinto come invincibile grazie ad una cintura che gli raddoppiava la forza, a guanti di ferro e ad un martello di ferro chiamato “Mjolnir”, facilmente irritabile ma anche protettore dei contadini, dei lavoratori e dei marinai), Ty o Tyr (presidente dell’assemblea dell’Asgard, particolarmente venerato in Danimarca e invocato nei Thing, durante la stesura dei contratti, nei matrimoni e nei tornei), Loki (personificazione del male, conosciuto come “mezzo dio e mezzo diavolo”, adottato nell’Olimpo perché fratello di Odino ma senza cuore e senza morale, e dunque tollerato solo fino a che uccise il dio buono Baldr e, in seguito, incatenato ad una rupe), Baldr (l’esatto contrario di Loki, quindi rappresentante della bontà e della purezza, tanto che tutti gli esseri viventi avevano giurato di non fargli mai male), Heimdal (guardiano di Asgard e rappresentazione di tutte le virtù militaresche).
Sotto Asgard, la terra è, nella strutturazione cosmologica norrena, circondata dal grande oceano, dimora del serpente di Midgard. Sulla sponda più lontana dell’oceano si trovano le montagne dei titani, Jötunheim, dov’è situata la loro cittadella, Utgard, mentre negli abissi della terra è celata la landa desolata dei morti, Hel.
Come detto, oltre al Bifrost, ad unire i due mondi di Asgard e Midgard si trova l’albero di frassino Yggdrasil, caricato di innumerevoli significati simbolici: accanto a Yggdrasil si trovano due fontane, la fontana della saggezza di Mimi e l’altra del destino di Urd e mentre quattro cervi insidiano le sue radici, facendolo languire e rischiare di marcire, le tre Norne Urd, Vernandi e Skuld (vale a dire le tre dee rispettivamente: del Passato, del Presente e del Futuro) lo innaffiano in continuazione e si prendono cura dei suoi germogli.
Da quanto detto, è evidente che la religione runica fosse molto personalizzata: il popolo sentiva il bisogno di avere delle divinità vicine e per questo gli dei presentavano delle imperfezioni, erano mortali e facevano le stesse cose degli uomini[26]. L’altro lato della medaglia di questo contatto così diretto con il divino era che per i vichinghi il mondo era il palcoscenico della magia: essi credevano di essere guidati da esseri arcani e avversati da spiriti maligni spesso veicolati dal sangue, pensavano che nei capelli e nelle unghie, come in tutte le parti sporgenti del corpo, si celasse una fonte inesauribile di energia, ritenevano che le mani avessero un immenso potere taumaturgico e che spiriti buoni proteggessero i pascoli ed i raccolti e spiriti maligni li mettessero in pericolo.
Numerose erano anche le presenze di elementi naturali nella religione: cavalli, lupi, draghi e leoni accompagnavano gli uomini nelle saghe e nelle leggende, elfi e gnomi abitavano i boschi e regnavano nella notte, apportando sventura e paura, nonché tempeste e terremoti, mentre alcune donne “magiche”, le Disen, proteggevano dai malanni e dalla morte e venivano venerate in pubbliche feste.
I momenti “magici” per eccellenza erano le grandi feste del solstizio d’inverno e del solstizio d’estate: in particolare il primo era visto come simbolo di rigenerazione, di vigore, di forza nel combattimento, della fecondità e vi si offrivano doni agli dei, spesso sacrificali, condividendo in alcuni casi il sangue, in base ad uno stile dionisiaco, ubriacandosi e mangiando in abbondanza[27].
Tutto questo, comunque, non deve far pensare ad una religione semplicistica, di puro stampo naturalistico-panistista e antropomorfico-politeista: dietro ogni aspetto “letterale” dei vari miti, si nascondevano simboli filosoficamente molto profondi (un esempio per tutti: si pensi alla perdita dell’occhio di Odino, che simboleggia non solo il costo umano del raggiungimento del sapere, ma anche i rischi connessi all’addentrarsi troppo nella conoscenza dei misteri del creato …), così come di livello intellettualmente altissimo appare oggi la scienza divinatoria basata, con un sistema che, mutatis mutandis, oggi definiremmo “ghematriaco”, sull’interpretazione delle sacre rune, cioè della disposizione delle lettere nella formazione di un determinato testo.
Come accennato, comunque, a differenza della religione celtica, non risulta che il livello interpretativo più alto fosse precluso ad alcuno: la scelta del grado di profondità da attribuire alla propria comprensione religiosa spettava al singolo, indipendentemente dal suo livello sociale all’interno della categoria degli “uomini liberi”, sulla base di un sistema sostanzialmente egualitario interno ad ogni tribù.
La stessa pluralità semantica rinvenibile in qualunque tratto mitologico dell’odinismo, si riscontra, naturalmente, anche nell’escatologia norrena, ampiamente descritta nell’Edda Maggiore[28] e il cui ruolo è assolutamente fondamentale nel sistema di pensiero religioso in cui s’inserisce, dal momento che il paradiso è concepito dai vichinghi come una battaglia senza posa in attesa del giorno finale del giudizio: il Ragnarök, dove si regoleranno tutti i conti lasciati in sospeso fra gli dei buoni e quelli malvagi.
Il Ragnarök verrà preceduto dal “Fimbulvetr” (ulteriormente diviso in un “tempo di spada” e un “tempo di lupi”), un inverno terribile della durata di tre anni, in seguito al quale avverrà la sfascio dei legami sociali e familiari, in un vortice di sangue e violenza al di là di ogni legge e regola. Poi, come scrive Brøndsted nel suo I Vichinghi: “I galli canteranno nel palazzo di Odino, nello Hel e nelle selve dei sacrifici. Cresceranno orrore e paura. È l’epoca dei mostri giganteschi: il cane infernale Garm abbaierà; il lupo Fenrir, rotte le catene, scorrazzerà libero con le sue fauci che vanno dalla terra al cielo; il serpente di Midgard sferzerà l’oceano facendolo spumeggiare e sputando veleno sulla terra. Il gigante Hrym solcherà i mari con la sua nave Naglfar, costruita con le unghie dei morti; i figli di Muspel vi s’imbarcheranno e partiranno agli ordini di Loki“[29] .
“[...] Spariranno quindi Sól (il Sole) e Máni (la Luna): i due lupi (Sköll e Hati) che, nel corso del tempo, perennemente inseguivano i due astri finalmente li raggiungeranno, divorandoli, privando il mondo della luce naturale. Anche le stelle si spegneranno. L’albero Yggdrasil tremerà, il cielo si spaccherà, le rupi crolleranno. In Jötunheim si sentirà un rombo, i nani strilleranno. Odino starà in allarme, Heimdal suonerà il suo corno, il ponte Bifröst crollerà, e il gigante Surtr avanzerà vomitando fuoco. [...]“[30]
Alla fine dei tempi, dunque, tutte le creature del caos attaccheranno il mondo: Fenrir il lupo verrà liberato dalla sua catena, mentre il Miðgarðsormr emergerà dalle profondità delle acque, la nave infernale Naglfar leverà le ancore per trasportare le potenze della distruzione alla battaglia, al timone il dio Loki, i misteriosi Múspellsmegir cavalcheranno su Bifrost, il ponte dell’arcobaleno, facendolo crollare. Heimdal, il bianco dio guardiano, soffierà nel suo corno, il Gjallarhorn, per chiamare allo scontro finale Odino, le altre divinità, e i guerrieri del Valhalla, gli Eihnerjar. Nel grande combattimento finale, che avverrà nella pianura di Vígríðr, ogni divinità si scontrerà con la propria nemesi, in una distruzione reciproca. Il lupo Fenrir divorerà Odino, che quindi sarà vendicato da suo figlio Víðarr, Thor ucciderà il serpente di Midgard ma morirà a causa del veleno di questi, Tyr e il cane infernale Garm si ammazzeranno a vicenda, Surtr abbatterà Freyr.
L’ultimo duello sarà tra Heimdallr e Loki, tra i quali la spunterà il primo, quindi il gigante del fuoco Surtr, proveniente da Múspellsheimr, darà fuoco al mondo con la sua spada fiammeggiante.
Di seguito, dalle ceneri, il mondo risorgerà: i figli di Odino, Víðarr e Váli, e i figli di Thor, Móði e Magni, erediteranno i poteri dei padri, Baldr, il dio della speranza e Höðr suo fratello, torneranno da Hel, il regno della morte. Essi troveranno, nell’erba dei nuovi prati, le pedine degli scacchi con cui giocavano gli dèi scomparsi e la stirpe umana verrà rigenerata da una nuova coppia originaria, Líf e Lífþrasir, sopravvissuti nascondendosi nel bosco di Hoddmímir o nel frassino Yggdrasill a seconda dei culti. La rinascita del mondo sarà tuttavia adombrata dal volo, alto nel cielo, di Níðhöggr, il serpe di Niðafjoll, misteriosa creatura tra le cui piume porterà dei cadaveri[31].
Il dato che immediatamente emerge dall’analisi di questo sistema è che in una società come quella norrena, a bassa tasso di strutturazione gerarchica, il meccanismo escatologico di base, ordinativo e retributivo, può emergere in tutta la sua completezza.
Lasciando da parte teorie alquanto discutibili[32] su una configurazione escatologica fortemente debitrice della penetrazione cristiana (con la sua Apocalissi di S. Giovanni), ipotesi basata unicamente sul fatto che la mitologia norrena sia stata codificata quasi interamente in seguito all’arrivo del cristianesimo nell’Europa settentrionale (senza tenere conto che tale codifica è avvenuta, comunque, sulla base di racconti della tradizione orale ben precedenti) e, di conseguenza, priva di qualunque reale verifica storico-scientifica, gli elementi che risultano più chiaramente dalla costruzione escatologica norrena sono tre:
- tentativo di dare senso al caotico;
- nostalgia edenica e senso di colpa per il “possibile perduto”;
- spinta verso una risoluzione retributiva.
Si tratta di elementi che, in situazioni parzialmente diverse, si incontrano in ogni escatologia.
In sostanza, l’essere umano, calato in un contesto dominato, come in ogni tempo e luogo, da elementi di ingiustizia e sopraffazione, cerca un senso ultimo da dare alla sua vita e alla vita dell’intera umanità, a partire dalla ricerca delle cause prime del “male” che osserva quotidianamente e che, a prima vista, apparirebbe insensato.
La risposta che ricava è che l’umanità vive un processo di progressiva decadenza che, a partire da una situazione edenica, porta ad un sempre maggior grado di perdita del senso sociale che culmina nella totale scomparsa persino dei valori di affettività primaria (si pensi al “Fimbulvetr”) che risultano elemento coesivo dell’intera struttura cosmica. Con la perdita di tali valori, l’essere umano, in un certo senso, arriverà all’autodistruzione, di cui il “Ragnarök” è rappresentazione esaustiva. L’attribuzione della lotta finale tra forze del bene (Asi e Vani) e forze del male (ognuno dei compagni di Loki, male assoluto, per qualche verso paragonabile al diavolo cristiano, è rappresentazione di un “peccato umano”, dalla violenza, all’ingordigia, alla cupidigia) è unicamente funzionale: in un sistema di fortissima antropomorfizzazione del divino come quello in esame, gli dei sono solo paradigmi comportamentali (in alcuni casi addirittura plurisimbolici) umani, cosicché il senso ultimo del racconto deve essere riportato sul piano terrestre per assumere di senso.
Perché tutto ciò avviene? Fondamentalmente perché il male è nella natura umana “ab origine”, come ben rappresentato, a livello simbolico-cosmogonico, dall’atto di patricidio antropofagico che sta alla base dell’intera strutturazione gerarchica che porta alla supremazia di Odino (che rappresenta l’ordine sociale esistente) e che, come già l’atto analogo di Zeus nella cosmogonia olimpica, si presta ad un duplice livello di significazione: da un lato il superamento (comunque superegoicamente inglobante) del legame parentale tipico dell’esperienza umana di crescita, dall’altro, la rottura dei vincoli etico-morali in vista dell’ottenimento del nuovo valore imperante del potere assoluto[33]. A partire da questo punto, da questa sorta di “peccato originale”, si opera la frattura tra orizzonte della saggezza e della sapienza ed esperienza del reale (non vi è posto per “Kvasir”, il saggio e sapiente frutto di un atto razionale di pacificazione sociale), ma non si tratta di una frattura indolore: il senso di colpa e di perdita dell’orizzonte edenico permane e richiede, a livello socio-psicologico, un meccanismo retributivo che si sviluppi come “risarcimento futuro” e tratto ontologicamente riordinativo. Da questa necessità si sviluppa l’idea di eschaton: gli esseri umani parzialmente (salvo Baldr, nessun dio è completamente “buono”, in quanto portatore delle stesse debolezze degli uomini) o completamente corrotti dovranno sparire, in vista di una palingenesi rigenerativa che porterà ad una umanità nuova (i figli di Odino, il cui ruolo è importantissimo, rappresentando, come esseri non corrotti, la sola speranza realmente escatologico-retributiva degli uomini[34]), guidata, questa volta, unicamente da quei sentimenti di “bontà e socialità” negati nel ciclo precedente (e da qui il ritorno di Baldr).
Se questo è il senso ultimo dell’escatologia norrena, poco importa, in fondo, che, a livello narrativo e popolare tale senso si sia dovuto ammantare con miti che, come giustamente sottolineato da Dumézil[35], derivano dal substrato indo-europeo e, conseguentemente, dalla mitologia hindu (con il Ragnarök futuro che riprende stilemi dell’analoga battaglia epocale tra Pāndava e Kaurava del Mahābhārata nel passato): ciò che conta è il meccanismo psicologico che si trova alla base e che, nella costruzione leggendaria vichingo-germanica trova la sua più completa rappresentazione.
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[1] J. Layard, I Celti – alle Radici di un Inconscio Europeo, Xenia, Milano 1995, pp. 28-42
[2] O.Davies, T.O’Loughlin, Celtic Spirituality (Classics of Western Spirituality), Paulist Press 2002, pp. 17-21.
[3] L.Laing, J.Laing, Celtic Britain and Ireland: Art and Society, Palgrave Macmillan, Manchester 1995, pp. 83 ss.
[4] A. Macbain, Celtic Mythology and Religion, Cosimo Classics, Edimborough 2005, passim
[5] B.Cunliffe, The Ancient Celts, Penguin, London 1999, pp. 207-218
[6] P. Berresford Ellis , Celtic Myths and Legends, Running Press 2002, pp.23-28
[7] O.Davies,T.O’Loughlin, Citato, pp. 86-102
[8] J. Markale, The Druids: Celtic Priests of Nature, Inner Traditions 1999, pp. 98 ss.
[9] P. Berresford Ellis, The Celts: a History, Running Press 2003, p. 18
[10] P.Ford, “Lludd and Lleuelys.” The Mabinogi and Other Welsh Tales, University of California Press 1977, pp.121-124.
[11] P.MacCana, Celtic Mythology, Hamlyn Publishing Group 1973, passim ss.
[12] R. A. S. Macalister (trad.), The Book of Invasions, IV, Irish Texts Society 1938-1956, pp.37-38
[13] Strabone, Geographia, II
[14] Flavio Arriano, Anabasi di Alessandro, IV
[15] B.Maier, Dictionary of Celtic Religion and Culture, Boydell 1997, p.43
[16] P. Berresford Ellis , Citato, pp.93-97
[17] P. Berresford Ellis , A Brief History of the Druids, Running Press 2002, p. 21
[18] V. Vikernes, Germansk Mytologi og Verdemsanskuelse, Norke 2000, p.46
[19] G. Jones, A History of the Vikings, Oxford University Press 2001, passim
[20] Per una trattazione esaustiva sul testo di questo poema fondamentale della mitologia norrena cfr. J.Johansson, S. Harnesson, The Voluspa, Coxland Press 1992
[21] Qui e in seguito, cfr. T.DuBois, Nordic Religions in the Viking Age, University of Pennsylvania Press 1999, passim
[22] Volupsa, III
[23] G.Dumézil, Gli Dèi dei Germani, Adelphi 1991, pp. 44-49. Kvas era anche il nome di una bevanda in uso presso i popoli slavi, che donava l’ebbrezza. Questo mito germanico presenta una palese analogia con un mito indiano: come gli Asi e i Vani della mitologia germanica, anche nella mitologia indiana vi è un conflitto originario dello stesso tipo tra gli dèi Indra e quelli Nâsatya. All’interno del conflitto, un’asceta alleato dei Nâsatya fabbrica con la forza della sua ascesi un mostro: “Ebbrezza”, “Mada”, che minaccia d’inghiottire tutto il mondo. Indra, spaventato, subito cede e stipula la pace coi Nâsatya. Per questi ultimi, però, a questo punto si pone il problema di come sbarazzarsi del mostro che non è altro che la personificazione dell’ebbrezza. Sicché l’asceta suo artefice si sbarazza della sua mostruosa creazione, facendolo in quattro pezzi, che vanno poi a distribuirsi nei quattro elementi che da quel momento in poi inebrieranno gli uomini: la bevanda, le donne, il gioco, la caccia. In questa analogia tra i due miti – germanico e nordico – è possibile rintracciare oltre che la diversa accezione – nel primo positiva e nel secondo, invece, negativa – che si dà dell’ebbrezza, anche una comune accezione – per entrambi positiva – di come all’origine dell’iniziale conflitto, seguito poi ad una pronta riconciliazione, tra divinità della fertilità e divinità della guerra vi sia l’esaustivo punto di approdo per un’armoniosa collaborazione delle classi sociali.
[24] Tra gli altri H. O’Donoghue, From Asgard to Valhalla: The Remarkable History of the Norse Myths, I. B. Tauris 2008, pp. 46-49 e J. Grant, An Introduction to Viking Mythology, Chartwell Books 2002, passim
[25] G.Dumézil, Citato, pp. 28-30
[26] J.Grant, Citato, pp. 21-35 passim
[27] P. Colum, W. Pogany, Nordic Gods and Heroes, Dover Publications 1996, passim
[28] L’Edda Maggiore o Edda Poetica è una raccolta di poemi in norreno, tratti dal manoscritto medioevale islandese Codex Regius. Insieme alla Edda in prosa di Snorri Sturluson, l’Edda poetica rappresenta la più importante fonte di informazioni a nostra disposizione sulla mitologia norrena e sulle leggende degli eroi germanici. Per un’analisi di tale testo, si consiglia: H. A. Bellows, The Poetic Edda: The Mythological Poems, Dover Publications 2004
[29] J. Brondsted, I Vichinghi, Einaudi 2001, pp. 268-269
[30] Ivi, pp. 273-274
[31] H. A. Bellows, Citato, pp. 207 ss.
[32] Tra i sostenitori più recenti della quale, ricordiamo I. Donnelly , Ragnarok: The Age of Fire and Gravel, Forgotten Books 2007, passim
[33] Sui significati psicologici dei miti cosmogonici vd. P. Cousineau, Once and Future Myths: The Power of Ancient Stories in Modern Times, Conari Press 2001, passim
[34] Non è un caso che gli unici superstiti del Ragnarök saranno quegli dei-uomini che più simboleggiano le virtù perdute.
[35] G.Dumézil, Citato, pp. 111 ss.
tratto da http://www.centrostudilaruna.it/dalla-caduta-dei-cieli-al-ragnarok-i-miti-cosmologico-escatologici-nordici.html
Né, d’altra parte, ci si sarebbe potuto aspettare qualcosa di diverso da un popolo come, ad esempio, quello dei Celti che, a buon diritto si può considerare alla base di gran parte delle concezioni archetipiche del mondo occidentale[1].
Per quanto riguarda la loro religione, il primo concetto da tener ben presente per comprenderla realmente è che, per circa un terzo della loro storia (per tutto il periodo che possiamo definire “protostoria”), i Celti sono stati nomadi impegnati in una lenta e lunghissima migrazione dall’India settentrionale verso occidente. Di conseguenza, il loro sistema spirituale si è sviluppato relazionandosi a tale stile di vita e basandosi su esso.
Forse soprattutto da questo deriva la formazione di una religiosità fondata sul contatto con la natura, sul suo rispetto e sul sentirsi sua parte integrante, in un abbandono quasi fatalista al suo corso naturale[2]. D’altra parte, è questa una caratteristica tipica di numerose civiltà non stanziali dell’età del bronzo e non sembra affatto un caso che la religione celtica mostri moltissime affinità con altre religioni di culture indoeuropee con cui i Celti erano sicuramente venuti a contatto, in particolare con quella scita.
Gli elementi principali su cui tutto il sistema si fonda sembrano apparentemente piuttosto semplici: la reincarnazione della vita, la rigenerazione, la resurrezione e la sacralità di alcune piante, viste come tramite con il firmamento e separazione tra uomo e dei celesti (non a caso attorno ad ogni villaggio c’erano boschi sacri, detti “drynemeton” dove avevano luogo i riti sacri).
Ovvio corollario di una tale “naturalità” religiosa (e del nomadismo che, essenzialmente, ne è causa fondante) è la mancanza di edifici di culto: spesso pensiamo che menhir, dolmen e cromlech sparsi per l’Europa siano state costruzioni celtiche, ma, in realtà, tali strutture furono di almeno 1000 anni precedenti alla penetrazione protoceltica e, semplicemente, i Celti si limitarono a utilizzare ciò che trovarono sul loro cammino, assimilando tali edificazioni liturgiche (in effetti, comunque, la loro primaria funzione religiosa rispetto a possibili altre funzioni, probabilmente di stampo scientifico-astronomico, è tuttora oggetto di studio) a una sorta di “bosco sacro” in pietra, unione tra dei e uomini[3].
Questo, come detto, non ci deve far minimamente pensare di essere di fronte ad una religiosità di tipo primitivo. Le concezioni di fondo sono solo apparentemente elementari, ma, in radice, si fondano su speculazioni filosofiche di livello tale da dover essere semplificate per adattarsi al popolo minuto: abbiamo, così, due livelli religiosi ben distinti, uno popolare ed uno alto.
Per quanto riguarda la religiosità popolare, essa era costituita da una mitologia accessibile e da una serie di riti che avevano pian piano inglobato anche alcuni elementi arcaici risalenti al neolitico e provenienti da culti solari, tellurici e lunari. Come proprio della maggior parte dei culti indoeuropei, veniva praticato il politeismo, con un pantheon formato addirittura da 374 divinità. In effetti, molte erano copie di altre, per cui possiamo in effetti parlare di circa 60 dei veri e propri, per lo più impersonificazioni di eventi naturali.
Il dio più importante di tutti era Lug (in onore del quale vennero fondate Lione e Leida), un dio-druida in grado di suonare l’arpa, lavorare il ferro, combattere da valoroso, fare magie. Da lui, in una fase di difficile determinazione, derivò il culto di una triade di suoi (presunti) discendenti Teutate, Eso e Tarani (Teutate era il più potente e si placava con sacrifici di sangue, Eso era identificato con il toro, anche egli assetato di sangue e Tarani era il dio della guerra e, per i sacrifici a lui offerti, preferiva il rogo), che ricorda molto da vicino la trinità divina germanica Wotan-Odino, Donar-Thor, Ziu-Tyr, ma che non necessariamente ha punti di origine comuni con essa (il concetto di trinità è, in effetti, molto ricorrente nelle religioni dei popoli di origine orientale). Successivamente, comunque, Lug assunse una prevalenza definitiva su tutti gli altri dei e, nel culto popolare, venne sempre più affiancato da eroi locali divinizzati (il più importante sarà l’irlandese Cu Chulainn)[4]. Agli dei, nei boschi sacri, contraddistinti da recinzioni, o presso pozzi appositamente scavati e forse collegati al culto della terra, si sacrificava di tutto, dagli oggetti (presso alcuni pozzi sono state trovate anche armi e vasellame) agli esseri umani (nemici, schiavi e, in qualche caso, anche uomini liberi), sia nel tentativo di ingraziarseli, sia in quello di ottenere predizioni (la divinazione era la pratica magico-religiosa più diffusa), sia, infine, in quello di mitigare i numerosissimi “geasa” (tabù) che limitavano la vita di chiunque[5].
Ben differente era la religiosità “alta”, propria delle classi intellettuali (bardi, indovini e, soprattutto, druidi e sacerdotesse druide): l’idea di fondo era che la vita, con il suo fluido, la sua forza chiamata “oiw”, permeasse ogni cosa. Tutte le manifestazioni della natura, anche quelle più violente, erano vissute come un’ incarnazione di tale energia assoluta che presiedeva alla creazione e alla distruzione del mondo, in un processo ciclico di nascita e morte che si rinnovava continuamente e da cui derivava il concetto della reicarnazione. Da questa concezione ciclica dei tempi e degli eventi e non dalla paura o dalla superstizione (comunque ben presente a livello popolare) nasceva l’assoluto rispetto per la natura, vista, in un’ottica che con la sua prossimità all’induismo non può che avvalorare una origine asiatica dei celti, come possibile sede di reincarnazione[6].
In realtà, comunque, più che di ciclicità vera e propria sarebbe più consono parlare di continua evoluzione.
Il divino stesso era visto come un principio in perenne evoluzione che si manifestava in quattro stadi (o mondi) diversi: dal centro (Oiw assoluto) si passava, attraverso cerchi concentrici, allo stadio della conoscenza spirituale, poi al mondo fisico, infine allo stato della materia incorporea inanimata. Più che alla trasmigrazione da un corpo all’altro, allora, i celti credevano in un passaggio tra stadi di conoscenza e consapevolezza diversi, ottenibile tramite iniziazione. Il corpo del defunto entrava nel mondo dell’ invisibile dove manteneva la memoria dell’ esistenza terrena e grazie a questa, poteva entrare in contatto con i vivi, in particolari momenti dell’anno (Samhain); poi la memoria andava via via affievolendosi fino all’oblio definitivo, che apriva le porte o all’immortalità o di nuovo al mondo fisico. Da questo processo traeva senso la divinazione, spesso ottenuta tramite trance: il veggente, in uno stato di coscienza alterata, entrava in contatto con i morti o con gli dei, che, nel continuum spazio-temporale celtico, vivevano semplicemente in uno spazio parallelo (ctonio per i morti, empireo per gli dei, con i quali il contatto era possibile anche tramite l’osservazione degli astri) da cui era possibile vedere ciò che alla vista umana era precluso (pur essendo comunque già esistente, con una concezione del futuro simile ad una sorta di “presente prossimo”)[7].
Naturalmente, per scavalcare le barriere naturali e seguire le vie dell’oiw, era necessaria una grande sapienza ed una profondissima preparazione, riservata unicamente alla classe sociale più elevata della società celtica, quella druidica.
E’ proprio questa preminenza della sfera religiosa su quella politica che dà ragione della completa “spiritualizzazione” della vita sociale dei Celti, una spiritualizzazione che, però, a differenza di quella delle popolazioni mesopotamiche ed egiziane, mantiene nettamente separate le funzioni relative ai due ambiti, pur ammantando di spirito religioso tutte le azioni, incluse quelle relative alle attività belliche e di governo: in sostanza, pur essendo entrambe espressioni dell’oiw (come, d’altra parte, ogni altra cosa), religione e politica rimangono espressioni differenti, atte a persone differenti, da un lato i druidi, dall’altra i guerrieri.
Il corollario di ciò è la relativa libertà espressiva del culto e della costruzione mitologemetica, che non devono dare conto delle proprie posizioni ad alcun potere politico superiore, ma che, a loro volta, non finiscono con l’omogeneizzarsi con tale potere.
La conseguenza, in ambito escatologico, è la piena libertà di costruire un sistema a sé stante, il cui unico vincolo è l’osservazione druidica della realtà e della natura dell’oiw così come visibile nelle sue manifestazioni più evidenti[8].
E ciò che appare chiaro a chiunque osservi anche distrattamente i cicli della natura è che tutto ciò che ha un inizio deve per forza avere una fine e che, dunque, anche l’universo, avendo cominciato ad esistere in qualche momento imprecisato del continuum spazio-temporale, dovrà necessariamente un giorno avere termine allorché l’oiw stesso, che pure infonde la vita ad ogni creatura esistente, esaurirà la propria carica vitale.
Proprio sulla base di una tale osservazione di principio, i druidi costruirono una intera strutturazione mitologico-cosmogonica che desse conto proprio dell’inevitabile esaurirsi dei tempi.
Purtroppo, però, a differenza dei Greco-Latini, con la loro ricchissima letteratura, i Celti, che avevano una cultura prettamente orale, non ci hanno lasciato testimonianze scritte relative alle loro credenze e le uniche fonti a nostra disposizione sono quelle di seconda mano del mondo classico e quelle tarde di monaci cristiani gallesi e irlandesi[9]. Attraverso di esse, nonostante le palesi limitazioni che impongono alla nostra analisi, possiamo farci un’idea piuttosto precisa del sistema cosmologico celtico.
Per quanto riguarda la creazione, possiamo arguire che il dio Esus (o figure corrispondenti, come Lug, in altre aree della cultura celtica), secondo il mito più diffuso, facesse accovacciare, in compagnia della “Triplice Dea” (qui in forma di uccello), il “toro cosmico” sotto l’albero del mondo e dal suo corpo la terra e l’ordine delle cose avesse origine.
Da quel momento in poi, come accennato anche nel Mabinogion[10], diversi dei contribuirono all’aspetto attuale della terra (dall’abbeverarsi di una dea alle fonti sacre nacquero i fiumi, dal lancio di massi da parte dei giganti le montagne, etc.)
Successivamente, alcune fonti riportano la presenza di una sorta di “Guerra nei cieli” (presente anche nella mitologia greco- romana e norrena) tra i “Fomori” (qui nelle vesti di una sorta di titani) e i “Tuatha Dé Danann” (gli dei veri e propri, guidati da Lug), probabile retaggio di qualche antica faida tra grandi clan (e, infatti, nel Mabinogion, quella che probabilmente è la stessa vicenda viene legata alla guerra tra le famiglie dei Llŷr/Annwfn e la famiglia dei Dôn), la qual cosa ci dice di quanto della religiosità popolare celtica derivi anche dalla mitizzazione di eventi storici reali.
Fondamentale (anche se non abbiamo certezze assolute e definitive a tale riguardo) all’interno dell’architettura universale doveva essere anche la concezione di “Albero del mondo” (una sorta di versione celtica dello Yggdrasil norreno), detto “Bile”, lungo il quale correva l’asse del mondo, che sosteneva i “tre reami” tradizionali (terra, mare e cielo), simmetricamente riflessi nel mondo dell’aldilà, cioè nell’area di passaggio in cui le anime dovevano soggiornare prima della reincarnazione e da cui, come possiamo presumere attraverso l’interpretazione simbolica di alcuni miti, gli esseri umani dovevano originariamente provenire[11].
La concezione dell’”albero del mondo” ci introduce nel nebuloso mondo dell’escatologia celtica.
Anche riguardo a questo argomento specifico, non possiamo non lamentare la scarsità delle fonti dirette. L’unico testo tradizionale che ci parli di situazioni escatologiche è, infatti, il La Seconda Battaglia di Magh Turedh, in cui, subito dopo che i Tuatha Dé Danann hanno sconfitto i Fomori, Morrigan fa una profezia riguardo alla fine del mondo:
“Io non vedrò un mondo che mi sarà caro:
le estati saranno senza fiori,
il bestiame senza latte,
le donne senza modestia,
gli uomini senza valore,
i sudditi senza un re,
i boschi senz’alberi,
il mare senza pesci.
I vecchi non sapranno più giudicare,
gli avvocati porteranno false prove,
ogni uomo sarà traditore,
ogni ragazzo sarà riottoso,
il figlio entrerà nel letto del padre
e il padre nel letto del figlio,
ciascuno sarà cognato di suo fratello…
I tempi saranno malvagi:
il figlio tradirà il padre,
la figlia la madre.“[12]
Siamo qui di fronte ad una tipica descrizione di una situazione di caos sociale, il che ci potrebbe far pensare ad un classico meccanismo retributivo/punitivo presente in pressoché ogni costruzione escatologica: il male esiste e continuerà a crescere fino al momento in cui gli dei, stanchi dell’umanità, decideranno di porre fine all’umanità degenerata. Purtroppo, però, nulla ci assicura che quanto espresso in questo brano sia effettivamente ciò che i Celti comunemente pensavano e non una semplice opinione dell’anonimo estensore del testo.
Fortunatamente, come detto, abbiamo altre fonti, per quanto indirette, a nostra disposizione, anche se esse appaiono piuttosto contraddittorie.
Strabone scrive: “Non solo i druidi, ma anche il popolo comune ritiene che l’anima umana e l’universo siano indistruttibili, sebbene un giorno il fuoco e l’acqua prevarranno su di essi“[13], mentre lo storico greco Arriano, trattando di Alessandro Magno, afferma che quando il re chiese a un gruppo di Celti noti per la loro ferocia che cosa temessero, essi rispose “Niente al mondo, se non che i cieli potessero cadere sulla loro testa“[14].
Probabilmente, però, la contraddizione tra le due versioni è solo apparente. Tenendo conto che la caduta dei cieli dovrebbe essere provocata dal crollo del “Bile”, dell’asse del mondo, la domanda che ci dobbiamo porre riguarda le cause che dovrebbero provocare tale evento. Ancora una volta, non abbiamo dati certi, ma possiamo solo fare supposizioni.
Come avremo modo di analizzare, nel Ragnarok germanico-norreno, troviamo una seconda battaglia tra dei e titani, l’incendio dello Yggdrasil, la lotta tra Thor e il serpente “infernale” e, probabilmente, un nuovo mondo che promana dal caos, in una idea sostanzialmente ciclica della natura del cosmo che ricorda da vicino le teorie induiste della fine del Kali Yuga: per similarità possiamo ritenere che proprio ad un’epoca di stravolgimenti naturali si riferisca Strabone e che questa epoca provochi la distruzione del “Bile” e la conseguente caduta del cielo[15].
Una inferenza di questo genere è possibile proprio sulla base della evidente consonanza tra la mitologia religiosa hindu e quella celtica (ricordiamo che i Celti provenivano originariamente dal nord dell’India), una consonanza tale per cui, ad esempio, le vicende di Lug Lamhfhada appaiono chiare riprese di vicende analoghe di Vishnu, anche per quanto riguarda l’essere entrambi guardiani proprio dell’albero del mondo ed essere coloro che, nei rispettivi eschaton, gli daranno fuoco, mentre il ruolo della divinità gallica Smertrios, il dio della guerra che, alla fine dei tempi, uccide il serpente primigenio, richiama da vicino quello del dio del tuono indiano Indra, che uccide il dragone Vritra in circostanze analoghe (e del dio scandinavo Thor, che, vedremo, nell’Edda perisce uccidendo l’enorme serpente Jormungand durante il Ragnarok, mostrando una netta matrice comune dei tre sistemi mitologici)[16].
A questo punto possiamo cominciare a tirare le somme delle evenienze dell’eschaton celtico.
Il primo dato di cui dobbiamo tener conto è la netta distinzione tra mondo religioso e mondo laico, una distinzione che, quasi paradossalmente, promanando dalla spiritualizzazione di ogni ambito della vita e, conseguentemente, dalla superiorità del primo sul secondo, permette un notevole libertà elaborativo-escatologica da parte dei druidi. Tale libertà elaborativa risulta nella oggettiva osservazione della finitezza del reale e, a livello alto, si articola nella semplice constatazione della possibilità di esaurimento dell’oiw, cioè della forza generativo-vitale universale.
A livello popolare, tale constatazione, di per sé non ulteriormente specificata, deve essere ammantata mitologicamente e ciò avviene attraverso una sorta di ripresa di elementi primigeni di radice indo-europea che portano a specificazioni ulteriori di stampo etico-morale, inutili per la classe sacerdotale ma fondamentali per l’ammaestramento del popolo.
Così, l’intera teorizzazione escatologica si configura, a livello popolare, come una sorta di grande parabole morale che vede l’esaurimento dell’oiw come conseguenza della progressiva perdita dei valori edenici originali di etica sociale e, quindi, sostanzialmente, come un sistema retributivo collettivo di stampo molto prossimo a quello dell’escatologia ellenica, con la sua conseguente valenza ordinativa del caotico.
Di particolare interesse, è proprio questa sorta di doppia valenza dell’eschaton celtico, di osservazione naturale moralmente neutra per la “casta” druidica e di memento morale per il popolo, una doppia valenza che ci dice di una religione con connotazioni pesantemente esoterico-iniziatiche, volte probabilmente alla perpetuazione del potere sociale del nucleo spirituale dominante, svincolato dai comuni legami etici che accompagnano ogni situazione di orientamento retributivo[17].
Un sistema “ab origine” piuttosto similare è riscontrabile anche all’interno della strutturazione religiosa norrena, ma, nel quadro di una società improntata ad un maggior grado di democraticità, tipico delle popolazioni di stirpe germanica, la distinzione tra gruppi sociali si fa, anche in termini religiosi ed escatologici, più labile.
Per rendercene conto, diamo uno sguardo d’insieme al sistema spirituale germanico-norreno-vichingo.
Come visto per la religione celtica, la religione vichinga classica (a detta di alcuni sviluppata al termine dell’Età del Bronzo e piuttosto differente dai sistemi spirituali nordici precedenti[18]), che con ogni probabilità proprio da essa (e, conseguentemente, dai culti indoeuropei, con origini relative all’area scita-iranica) ha subito sin dalla sua nascita pesanti influenze, si struttura come un sistema di pensiero fortemente realistico, presentando numerose commistioni con il mondo reale vissuto dal popolo e numerosi riferimenti alla vita quotidiana ed agli elementi naturali che accompagnavano la vita quotidiana.
Al suo interno, il corrispettivo dei druidi era dato dai sacerdoti o “rusii”, detti “attiba” che, però non risultavano essere gli unici depositari di un sapere superiore e il cui compito era, essenzialmente, solo quello di svolgere i riti sacrificali durante le cerimonie. Questi avevano luogo all’aperto, in pieno stile celtico, e venivano costituiti da sacrifici di animali ed esseri umani, i cui cadaveri erano esposti appesi ad alberi. Tali alberi, richiamati anche simbolicamente dall’utilizzo di pietre megalitiche su cui venivano apposte scritture runiche, rappresentavano l’albero sacro, l’enorme frassino Yggdrasil che aveva le radici negli inferi e la sommità nel cielo e che, insieme al Bifrost, il bellissimo ponte che univa l’Asgard celeste e il Midgard terrestre, stava a significare la continuità tra la due realtà cosmiche[19].
Tali realtà erano parte del grande piano universale descritto nella grande cosmo-teogonia narrata nell’antichissimo poema Voluspa[20]. Secondo il Voluspa il primo essere animato a comparire fu il gigante Ymir, nato dallo scontro tra il ghiaccio del mondo settentrionale, detto “Niflheim”, ed il fuoco del mondo meridionale, detto “Muspelheim”. Ymir abitava nella Terra di Nessuno ed ebbe come compagna una mucca, Audumla. Da questi nacque la prima coppia di giganti che ebbero come figlia Bestla. Questa si unì a Bor, nato da Audumla e dai due nacquero Odino, Vili e Ve, che uccisero Ymir e fecero il mondo: con il cranio del gigante fu fatta la volta celeste, con il cervello le nuvole, con il sangue il mare e con la carne e le ossa la terra. Essi inizialmente andarono ad abitare tra il cielo e gli inferi, nel Midgard (Terra di Mezzo), mentre ai giganti assegnarono l’Utgard (Terra alla Periferia), ma poi, alla nascita del genere umano, a cui il Midgard venne lasciato, si trasferirono nell’Asgard (Terra Superiore). Qui vi era una sala enorme, ove gli dei potevano fumare, bere idromele, giocare a scacchi e osservare il mondo da loro affidato ai discendenti di Askr ed Embla, i due primi esseri umani, da essi creati soffiando sull’Yggdrasil[21].
Da religione realistica e sviluppata da un popolo che teneva le questioni militari in altissimo conto, la spiritualità vichinga non poteva non prevedere una sorta di archetipo bellico, rappresentato da uno scontro epico iniziale tra due fazioni di divinità: gli dèi Asi e i Vani. Sempre secondo il Voluspa questa guerra si concluse con un’insperata pace e un accordo che prevedeva uno scambio di ostaggi tale per cui alcuni Vani, il padre Njörd, suo figlio Freyr e sua figlia Freyja (divinità queste simboleggianti ciascuna: la fertilità della terra, la vita sessuale e la vita amorosa) si trasferirono a vivere ad Asgard, presso gli Asi.
Secondo la leggenda, per sigillare la pace i due gruppi sputano di comune accordo su di un recipiente e da esso venne plasmato un uomo, Kvasir, di straordinaria saggezza, il cui destino, però, fu presto segnato: due nani lo uccisero, distribuendo il suo sangue in tre recipienti diversi, in cui vi mescolano del miele formando così “l’idromele di poesia e di saggezza“[22], per poi raccontare agli dèi che Kvasir era soffocato nella propria saggezza, non essendovi stato alcuno capace di esaurirla con le sue domande[23].
Molti studiosi propendono col ritenere che questa guerra tra gli dèi Asi e Vani sia lo specchio di un analogo conflitto tra due popolazioni umane, laddove i Vani corrispondono ad una stirpe più originaria e pacifica, mentre gli Asi ad una venuta dopo e decisamente più guerresca[24].
Lo studioso di religioni francese Georges Dumézil, invece, non è di questo avviso. Questi frappone alla tesi storicizzante la sua tesi strutturalista[25], secondo la quale Asi e Vani sono divinità che si presuppongono reciprocamente come complementari, cosicché gli uomini hanno bisogno di affidarsi sia agli uni che agli altri: anche se Dumézil stesso non nega una certa veridicità della tesi storicizzante, che riflette davvero un mondo che esisteva già prima degli Indoeuropei, poi divenuti Germani, ritiene che persino le popolazioni più antiche necessitassero sia di un tipo di divinità pacifiche che di altre bellicose, a cui rivolgere i loro tributi a seconda dei casi.
Di fatto, comunque, quasi tutte le principali divinità appartenenti al pantheon nordico erano del gruppo degli Asi: Odino (considerato signore del cielo, seduttore, duce nelle battaglie con il suo cavallo Sleipnir, dio dei morti, poeta, mago, conoscitore dei misteri dopo che aveva dato uno sguardo alla fonte della conoscenza, cosa che gli costò la perdita di un occhio, personaggio cupo e malinconico, amante della poesia e della musica), Thor (conosciuto come Tur dai normanni, il dio più venerato dai nordici, perché più vicino alle loro esigenze e non aristocratico come Odino, uomo possente che dimorava in un palazzo di 140 sale, mangiava molto e beveva barili di idromele, spesso dipinto come invincibile grazie ad una cintura che gli raddoppiava la forza, a guanti di ferro e ad un martello di ferro chiamato “Mjolnir”, facilmente irritabile ma anche protettore dei contadini, dei lavoratori e dei marinai), Ty o Tyr (presidente dell’assemblea dell’Asgard, particolarmente venerato in Danimarca e invocato nei Thing, durante la stesura dei contratti, nei matrimoni e nei tornei), Loki (personificazione del male, conosciuto come “mezzo dio e mezzo diavolo”, adottato nell’Olimpo perché fratello di Odino ma senza cuore e senza morale, e dunque tollerato solo fino a che uccise il dio buono Baldr e, in seguito, incatenato ad una rupe), Baldr (l’esatto contrario di Loki, quindi rappresentante della bontà e della purezza, tanto che tutti gli esseri viventi avevano giurato di non fargli mai male), Heimdal (guardiano di Asgard e rappresentazione di tutte le virtù militaresche).
Sotto Asgard, la terra è, nella strutturazione cosmologica norrena, circondata dal grande oceano, dimora del serpente di Midgard. Sulla sponda più lontana dell’oceano si trovano le montagne dei titani, Jötunheim, dov’è situata la loro cittadella, Utgard, mentre negli abissi della terra è celata la landa desolata dei morti, Hel.
Come detto, oltre al Bifrost, ad unire i due mondi di Asgard e Midgard si trova l’albero di frassino Yggdrasil, caricato di innumerevoli significati simbolici: accanto a Yggdrasil si trovano due fontane, la fontana della saggezza di Mimi e l’altra del destino di Urd e mentre quattro cervi insidiano le sue radici, facendolo languire e rischiare di marcire, le tre Norne Urd, Vernandi e Skuld (vale a dire le tre dee rispettivamente: del Passato, del Presente e del Futuro) lo innaffiano in continuazione e si prendono cura dei suoi germogli.
Da quanto detto, è evidente che la religione runica fosse molto personalizzata: il popolo sentiva il bisogno di avere delle divinità vicine e per questo gli dei presentavano delle imperfezioni, erano mortali e facevano le stesse cose degli uomini[26]. L’altro lato della medaglia di questo contatto così diretto con il divino era che per i vichinghi il mondo era il palcoscenico della magia: essi credevano di essere guidati da esseri arcani e avversati da spiriti maligni spesso veicolati dal sangue, pensavano che nei capelli e nelle unghie, come in tutte le parti sporgenti del corpo, si celasse una fonte inesauribile di energia, ritenevano che le mani avessero un immenso potere taumaturgico e che spiriti buoni proteggessero i pascoli ed i raccolti e spiriti maligni li mettessero in pericolo.
Numerose erano anche le presenze di elementi naturali nella religione: cavalli, lupi, draghi e leoni accompagnavano gli uomini nelle saghe e nelle leggende, elfi e gnomi abitavano i boschi e regnavano nella notte, apportando sventura e paura, nonché tempeste e terremoti, mentre alcune donne “magiche”, le Disen, proteggevano dai malanni e dalla morte e venivano venerate in pubbliche feste.
I momenti “magici” per eccellenza erano le grandi feste del solstizio d’inverno e del solstizio d’estate: in particolare il primo era visto come simbolo di rigenerazione, di vigore, di forza nel combattimento, della fecondità e vi si offrivano doni agli dei, spesso sacrificali, condividendo in alcuni casi il sangue, in base ad uno stile dionisiaco, ubriacandosi e mangiando in abbondanza[27].
Tutto questo, comunque, non deve far pensare ad una religione semplicistica, di puro stampo naturalistico-panistista e antropomorfico-politeista: dietro ogni aspetto “letterale” dei vari miti, si nascondevano simboli filosoficamente molto profondi (un esempio per tutti: si pensi alla perdita dell’occhio di Odino, che simboleggia non solo il costo umano del raggiungimento del sapere, ma anche i rischi connessi all’addentrarsi troppo nella conoscenza dei misteri del creato …), così come di livello intellettualmente altissimo appare oggi la scienza divinatoria basata, con un sistema che, mutatis mutandis, oggi definiremmo “ghematriaco”, sull’interpretazione delle sacre rune, cioè della disposizione delle lettere nella formazione di un determinato testo.
Come accennato, comunque, a differenza della religione celtica, non risulta che il livello interpretativo più alto fosse precluso ad alcuno: la scelta del grado di profondità da attribuire alla propria comprensione religiosa spettava al singolo, indipendentemente dal suo livello sociale all’interno della categoria degli “uomini liberi”, sulla base di un sistema sostanzialmente egualitario interno ad ogni tribù.
La stessa pluralità semantica rinvenibile in qualunque tratto mitologico dell’odinismo, si riscontra, naturalmente, anche nell’escatologia norrena, ampiamente descritta nell’Edda Maggiore[28] e il cui ruolo è assolutamente fondamentale nel sistema di pensiero religioso in cui s’inserisce, dal momento che il paradiso è concepito dai vichinghi come una battaglia senza posa in attesa del giorno finale del giudizio: il Ragnarök, dove si regoleranno tutti i conti lasciati in sospeso fra gli dei buoni e quelli malvagi.
Il Ragnarök verrà preceduto dal “Fimbulvetr” (ulteriormente diviso in un “tempo di spada” e un “tempo di lupi”), un inverno terribile della durata di tre anni, in seguito al quale avverrà la sfascio dei legami sociali e familiari, in un vortice di sangue e violenza al di là di ogni legge e regola. Poi, come scrive Brøndsted nel suo I Vichinghi: “I galli canteranno nel palazzo di Odino, nello Hel e nelle selve dei sacrifici. Cresceranno orrore e paura. È l’epoca dei mostri giganteschi: il cane infernale Garm abbaierà; il lupo Fenrir, rotte le catene, scorrazzerà libero con le sue fauci che vanno dalla terra al cielo; il serpente di Midgard sferzerà l’oceano facendolo spumeggiare e sputando veleno sulla terra. Il gigante Hrym solcherà i mari con la sua nave Naglfar, costruita con le unghie dei morti; i figli di Muspel vi s’imbarcheranno e partiranno agli ordini di Loki“[29] .
“[...] Spariranno quindi Sól (il Sole) e Máni (la Luna): i due lupi (Sköll e Hati) che, nel corso del tempo, perennemente inseguivano i due astri finalmente li raggiungeranno, divorandoli, privando il mondo della luce naturale. Anche le stelle si spegneranno. L’albero Yggdrasil tremerà, il cielo si spaccherà, le rupi crolleranno. In Jötunheim si sentirà un rombo, i nani strilleranno. Odino starà in allarme, Heimdal suonerà il suo corno, il ponte Bifröst crollerà, e il gigante Surtr avanzerà vomitando fuoco. [...]“[30]
Alla fine dei tempi, dunque, tutte le creature del caos attaccheranno il mondo: Fenrir il lupo verrà liberato dalla sua catena, mentre il Miðgarðsormr emergerà dalle profondità delle acque, la nave infernale Naglfar leverà le ancore per trasportare le potenze della distruzione alla battaglia, al timone il dio Loki, i misteriosi Múspellsmegir cavalcheranno su Bifrost, il ponte dell’arcobaleno, facendolo crollare. Heimdal, il bianco dio guardiano, soffierà nel suo corno, il Gjallarhorn, per chiamare allo scontro finale Odino, le altre divinità, e i guerrieri del Valhalla, gli Eihnerjar. Nel grande combattimento finale, che avverrà nella pianura di Vígríðr, ogni divinità si scontrerà con la propria nemesi, in una distruzione reciproca. Il lupo Fenrir divorerà Odino, che quindi sarà vendicato da suo figlio Víðarr, Thor ucciderà il serpente di Midgard ma morirà a causa del veleno di questi, Tyr e il cane infernale Garm si ammazzeranno a vicenda, Surtr abbatterà Freyr.
L’ultimo duello sarà tra Heimdallr e Loki, tra i quali la spunterà il primo, quindi il gigante del fuoco Surtr, proveniente da Múspellsheimr, darà fuoco al mondo con la sua spada fiammeggiante.
Di seguito, dalle ceneri, il mondo risorgerà: i figli di Odino, Víðarr e Váli, e i figli di Thor, Móði e Magni, erediteranno i poteri dei padri, Baldr, il dio della speranza e Höðr suo fratello, torneranno da Hel, il regno della morte. Essi troveranno, nell’erba dei nuovi prati, le pedine degli scacchi con cui giocavano gli dèi scomparsi e la stirpe umana verrà rigenerata da una nuova coppia originaria, Líf e Lífþrasir, sopravvissuti nascondendosi nel bosco di Hoddmímir o nel frassino Yggdrasill a seconda dei culti. La rinascita del mondo sarà tuttavia adombrata dal volo, alto nel cielo, di Níðhöggr, il serpe di Niðafjoll, misteriosa creatura tra le cui piume porterà dei cadaveri[31].
Il dato che immediatamente emerge dall’analisi di questo sistema è che in una società come quella norrena, a bassa tasso di strutturazione gerarchica, il meccanismo escatologico di base, ordinativo e retributivo, può emergere in tutta la sua completezza.
Lasciando da parte teorie alquanto discutibili[32] su una configurazione escatologica fortemente debitrice della penetrazione cristiana (con la sua Apocalissi di S. Giovanni), ipotesi basata unicamente sul fatto che la mitologia norrena sia stata codificata quasi interamente in seguito all’arrivo del cristianesimo nell’Europa settentrionale (senza tenere conto che tale codifica è avvenuta, comunque, sulla base di racconti della tradizione orale ben precedenti) e, di conseguenza, priva di qualunque reale verifica storico-scientifica, gli elementi che risultano più chiaramente dalla costruzione escatologica norrena sono tre:
- tentativo di dare senso al caotico;
- nostalgia edenica e senso di colpa per il “possibile perduto”;
- spinta verso una risoluzione retributiva.
Si tratta di elementi che, in situazioni parzialmente diverse, si incontrano in ogni escatologia.
In sostanza, l’essere umano, calato in un contesto dominato, come in ogni tempo e luogo, da elementi di ingiustizia e sopraffazione, cerca un senso ultimo da dare alla sua vita e alla vita dell’intera umanità, a partire dalla ricerca delle cause prime del “male” che osserva quotidianamente e che, a prima vista, apparirebbe insensato.
La risposta che ricava è che l’umanità vive un processo di progressiva decadenza che, a partire da una situazione edenica, porta ad un sempre maggior grado di perdita del senso sociale che culmina nella totale scomparsa persino dei valori di affettività primaria (si pensi al “Fimbulvetr”) che risultano elemento coesivo dell’intera struttura cosmica. Con la perdita di tali valori, l’essere umano, in un certo senso, arriverà all’autodistruzione, di cui il “Ragnarök” è rappresentazione esaustiva. L’attribuzione della lotta finale tra forze del bene (Asi e Vani) e forze del male (ognuno dei compagni di Loki, male assoluto, per qualche verso paragonabile al diavolo cristiano, è rappresentazione di un “peccato umano”, dalla violenza, all’ingordigia, alla cupidigia) è unicamente funzionale: in un sistema di fortissima antropomorfizzazione del divino come quello in esame, gli dei sono solo paradigmi comportamentali (in alcuni casi addirittura plurisimbolici) umani, cosicché il senso ultimo del racconto deve essere riportato sul piano terrestre per assumere di senso.
Perché tutto ciò avviene? Fondamentalmente perché il male è nella natura umana “ab origine”, come ben rappresentato, a livello simbolico-cosmogonico, dall’atto di patricidio antropofagico che sta alla base dell’intera strutturazione gerarchica che porta alla supremazia di Odino (che rappresenta l’ordine sociale esistente) e che, come già l’atto analogo di Zeus nella cosmogonia olimpica, si presta ad un duplice livello di significazione: da un lato il superamento (comunque superegoicamente inglobante) del legame parentale tipico dell’esperienza umana di crescita, dall’altro, la rottura dei vincoli etico-morali in vista dell’ottenimento del nuovo valore imperante del potere assoluto[33]. A partire da questo punto, da questa sorta di “peccato originale”, si opera la frattura tra orizzonte della saggezza e della sapienza ed esperienza del reale (non vi è posto per “Kvasir”, il saggio e sapiente frutto di un atto razionale di pacificazione sociale), ma non si tratta di una frattura indolore: il senso di colpa e di perdita dell’orizzonte edenico permane e richiede, a livello socio-psicologico, un meccanismo retributivo che si sviluppi come “risarcimento futuro” e tratto ontologicamente riordinativo. Da questa necessità si sviluppa l’idea di eschaton: gli esseri umani parzialmente (salvo Baldr, nessun dio è completamente “buono”, in quanto portatore delle stesse debolezze degli uomini) o completamente corrotti dovranno sparire, in vista di una palingenesi rigenerativa che porterà ad una umanità nuova (i figli di Odino, il cui ruolo è importantissimo, rappresentando, come esseri non corrotti, la sola speranza realmente escatologico-retributiva degli uomini[34]), guidata, questa volta, unicamente da quei sentimenti di “bontà e socialità” negati nel ciclo precedente (e da qui il ritorno di Baldr).
Se questo è il senso ultimo dell’escatologia norrena, poco importa, in fondo, che, a livello narrativo e popolare tale senso si sia dovuto ammantare con miti che, come giustamente sottolineato da Dumézil[35], derivano dal substrato indo-europeo e, conseguentemente, dalla mitologia hindu (con il Ragnarök futuro che riprende stilemi dell’analoga battaglia epocale tra Pāndava e Kaurava del Mahābhārata nel passato): ciò che conta è il meccanismo psicologico che si trova alla base e che, nella costruzione leggendaria vichingo-germanica trova la sua più completa rappresentazione.
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[1] J. Layard, I Celti – alle Radici di un Inconscio Europeo, Xenia, Milano 1995, pp. 28-42
[2] O.Davies, T.O’Loughlin, Celtic Spirituality (Classics of Western Spirituality), Paulist Press 2002, pp. 17-21.
[3] L.Laing, J.Laing, Celtic Britain and Ireland: Art and Society, Palgrave Macmillan, Manchester 1995, pp. 83 ss.
[4] A. Macbain, Celtic Mythology and Religion, Cosimo Classics, Edimborough 2005, passim
[5] B.Cunliffe, The Ancient Celts, Penguin, London 1999, pp. 207-218
[6] P. Berresford Ellis , Celtic Myths and Legends, Running Press 2002, pp.23-28
[7] O.Davies,T.O’Loughlin, Citato, pp. 86-102
[8] J. Markale, The Druids: Celtic Priests of Nature, Inner Traditions 1999, pp. 98 ss.
[9] P. Berresford Ellis, The Celts: a History, Running Press 2003, p. 18
[10] P.Ford, “Lludd and Lleuelys.” The Mabinogi and Other Welsh Tales, University of California Press 1977, pp.121-124.
[11] P.MacCana, Celtic Mythology, Hamlyn Publishing Group 1973, passim ss.
[12] R. A. S. Macalister (trad.), The Book of Invasions, IV, Irish Texts Society 1938-1956, pp.37-38
[13] Strabone, Geographia, II
[14] Flavio Arriano, Anabasi di Alessandro, IV
[15] B.Maier, Dictionary of Celtic Religion and Culture, Boydell 1997, p.43
[16] P. Berresford Ellis , Citato, pp.93-97
[17] P. Berresford Ellis , A Brief History of the Druids, Running Press 2002, p. 21
[18] V. Vikernes, Germansk Mytologi og Verdemsanskuelse, Norke 2000, p.46
[19] G. Jones, A History of the Vikings, Oxford University Press 2001, passim
[20] Per una trattazione esaustiva sul testo di questo poema fondamentale della mitologia norrena cfr. J.Johansson, S. Harnesson, The Voluspa, Coxland Press 1992
[21] Qui e in seguito, cfr. T.DuBois, Nordic Religions in the Viking Age, University of Pennsylvania Press 1999, passim
[22] Volupsa, III
[23] G.Dumézil, Gli Dèi dei Germani, Adelphi 1991, pp. 44-49. Kvas era anche il nome di una bevanda in uso presso i popoli slavi, che donava l’ebbrezza. Questo mito germanico presenta una palese analogia con un mito indiano: come gli Asi e i Vani della mitologia germanica, anche nella mitologia indiana vi è un conflitto originario dello stesso tipo tra gli dèi Indra e quelli Nâsatya. All’interno del conflitto, un’asceta alleato dei Nâsatya fabbrica con la forza della sua ascesi un mostro: “Ebbrezza”, “Mada”, che minaccia d’inghiottire tutto il mondo. Indra, spaventato, subito cede e stipula la pace coi Nâsatya. Per questi ultimi, però, a questo punto si pone il problema di come sbarazzarsi del mostro che non è altro che la personificazione dell’ebbrezza. Sicché l’asceta suo artefice si sbarazza della sua mostruosa creazione, facendolo in quattro pezzi, che vanno poi a distribuirsi nei quattro elementi che da quel momento in poi inebrieranno gli uomini: la bevanda, le donne, il gioco, la caccia. In questa analogia tra i due miti – germanico e nordico – è possibile rintracciare oltre che la diversa accezione – nel primo positiva e nel secondo, invece, negativa – che si dà dell’ebbrezza, anche una comune accezione – per entrambi positiva – di come all’origine dell’iniziale conflitto, seguito poi ad una pronta riconciliazione, tra divinità della fertilità e divinità della guerra vi sia l’esaustivo punto di approdo per un’armoniosa collaborazione delle classi sociali.
[24] Tra gli altri H. O’Donoghue, From Asgard to Valhalla: The Remarkable History of the Norse Myths, I. B. Tauris 2008, pp. 46-49 e J. Grant, An Introduction to Viking Mythology, Chartwell Books 2002, passim
[25] G.Dumézil, Citato, pp. 28-30
[26] J.Grant, Citato, pp. 21-35 passim
[27] P. Colum, W. Pogany, Nordic Gods and Heroes, Dover Publications 1996, passim
[28] L’Edda Maggiore o Edda Poetica è una raccolta di poemi in norreno, tratti dal manoscritto medioevale islandese Codex Regius. Insieme alla Edda in prosa di Snorri Sturluson, l’Edda poetica rappresenta la più importante fonte di informazioni a nostra disposizione sulla mitologia norrena e sulle leggende degli eroi germanici. Per un’analisi di tale testo, si consiglia: H. A. Bellows, The Poetic Edda: The Mythological Poems, Dover Publications 2004
[29] J. Brondsted, I Vichinghi, Einaudi 2001, pp. 268-269
[30] Ivi, pp. 273-274
[31] H. A. Bellows, Citato, pp. 207 ss.
[32] Tra i sostenitori più recenti della quale, ricordiamo I. Donnelly , Ragnarok: The Age of Fire and Gravel, Forgotten Books 2007, passim
[33] Sui significati psicologici dei miti cosmogonici vd. P. Cousineau, Once and Future Myths: The Power of Ancient Stories in Modern Times, Conari Press 2001, passim
[34] Non è un caso che gli unici superstiti del Ragnarök saranno quegli dei-uomini che più simboleggiano le virtù perdute.
[35] G.Dumézil, Citato, pp. 111 ss.
tratto da http://www.centrostudilaruna.it/dalla-caduta-dei-cieli-al-ragnarok-i-miti-cosmologico-escatologici-nordici.html
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