martedì 24 giugno 2014

BLOG SOSPESO A TEMPO INDETERMINATO

Questo blog oggi sospende le pubblicazioni. Motivazioni di carattere personale (poco tempo libero, troppo tempo da dedicare al lavoro) non permettono più una compiuta gestione del blog.
Ci rivedremo, questo è sicuro.
Quando, nessuno lo sa.
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lunedì 23 giugno 2014

Parlamento e governo italiano approvano il MUOS. Ma non finirà così!



Alla fine l'hanno approvato. Un progetto inutile e dannoso, che le comunità locali non vogliono e contro cui stanno combattendo da anni, è stato approvato dal Parlamento e dal Governo italiano. Accanto a motivazioni vaghe ("serve anche all'Italia", "ha scopi difensivi") si prevedono indecenti "compensazioni pecuniare per i danni accertati alla popolazione". Tradotto: sappiamo di aver fatto una porcata che peggiorerà la vostra vita, a partire dalla salute... ma pensiamo che se vi diamo due spiccioli starete buoni buoni e ci lascerete fare.
Inutile ribadire che la contrarietà a questo progetto, nel merito e nel merito, continuerà ad essere espressa con fermezza e radicalità sempre crescenti.

Nella seduta pomeridiana del 19 Giugno il Senato della Repubblica ha dato il via libera (l’ennesimo)al sistema di comunicazione satellitare (MUOS) definito “essenziale per le finalità strategiche USA”, accogliendo gli ordini del giorno presentati dai senatori Granaiola (per il Partito Democratico) e Di Biagio (gruppo parlamentare “Per I’Italia”, dell’ex ministro della difesa Mauro) e le modifiche richieste dal Governo Renzi, respingendo le richieste dei Comitati No Muos avanzate tramite la mozione di SEL e M5S.
Il Parlamento e il governo italiano, approvano il MUOS e con le parole del Sottosegretario di Stato per la difesa Alfano ribadiscono che “l’accordo bilaterale sul sito di Niscemi rientra tra gli obblighi di assistenza difensiva previsti dalla NATO” proseguendo che il MUOS “riveste un interesse strategico anche per l’Italia”. Al fianco del sostegno al MUOS, vengono ipocritamente previste compensazioni pecuniarie in caso di “danni accertati alla popolazione” e monitoraggi (di cui abbiamo già visto la finzione). A ciò si aggiunge l’eliminazione dal tavolo tecnico dei Comitati No Muos definiti nelle parole di Alfano come “soggetti che non hanno funzioni istituzionali” pertanto inutili e “da eliminare”, identificando “come soggetti interessati” solo gli Enti locali, ossia solo coloro che hanno in un modo o nell’altro supportato il percorso di costruzione del MUOS hanno il diritto di parola.
Il Partito Comunista, non si aspettava nulla di diverso dall’esito uscito fuori dal voto in Parlamento essendo esso il “comitato d’affari” della borghesia imperialista dove dominano gli interessi dei grandi monopoli industriali, finanziari e bancari attraverso il loro personale politico, oggi più che mai trasversale ai vari partiti, col Partito Democratico che ha assunto il ruolo di principale partito difensore di tali interessi anti-operai e anti-popolari. Il voto in Parlamento rende ancora più chiaro il terreno della lotta, i nemici e i compiti delle masse popolari, degli attivisti, dei comitati e delle organizzazioni politiche e di movimento impegnate nell’opposizione politica e sociale al MUOS.
Nelle parole del governo Renzi e del Parlamento si evince come il MUOS sia parte integrante dell’alleanza militare criminale della NATO a cui è vincolato lo Stato borghese italiano e che la stessa classe dominante italiana considera il MUOS come strategico alla “difesa nazionale” (in un tutt’uno con quella USA) come già in passato ribadito dall’ex Ministro Cancellieri che definì l’aerea della Sughereta come “zona d’interesse nazionale”. Gli interessi geo-strategici, economici, politici e militari che stanno alla base della costruzione e messa in moto del MUOS sono diametralmente opposti a quelle delle masse popolari siciliane che nulla hanno a che fare con le basi militari USA/NATO e con le guerre imperialiste, predatorie e criminali, che servono alla conquista delle rotte commerciali, al saccheggio delle risorse naturali, allo sfruttamento della manodopera a basso costo in altre aree, seminando morte e distruzione al solo fine di aumentare il tasso di profitto delle loro multinazionali; allo stesso tempo che impongono al proletariato e ai settori popolari sacrifici, sfruttamento, disoccupazione, precarietà, ostacoli all’accesso a servizi e diritti di base quali la sanità, l’istruzione, la casa.
Il voto in Parlamento ha inoltre smascherato la finzione “democratica borghese”, che cancellando il diritto di parola ai Comitati No MUOS, non riconosce sostanzialmente e formalmente alcun protagonismo popolare nelle decisioni. Il Partito Comunista, in definitiva, ribadisce, al fianco dei Comitati No MUOS, che è necessario rafforzare e ampliare la lotta popolare organizzata, con il protagonismo delle masse, dal basso e fuori dalla compatibilità istituzionale e col sistema. Ci uniamo alla risposta popolare con la manifestazione del prossimo 9 Agosto a Niscemi, ad un anno esatto dalla simbolica liberazione e riappropriazione popolare del territorio occupato dalla base militare USA.
La lotta contro il MUOS ha un carattere anti-imperialista/anti-capitalista ormai ben chiaro e ben definito, e su questo piano deve esser combattuta la lotta, contro la NATO, contro tutte le basi militari nel nostro territorio, contro le guerre e ogni alleanza imperialista, per la solidarietà e cooperazione internazionalista del proletariato e dei popoli, contro il sistema capitalista garanzia solo di sfruttamento, sacrifici e guerre.
Per le classi dominanti, per il governo Renzi e il PD, il futuro della Sicilia deve essere solo quello di una piattaforma di guerra al servizio dell’imperialismo americano e europeo, fatta di disoccupazione, precarietà, miseria, senza alcuna sovranità popolare e cura della salute e dell’ambiente. Rifiutiamo questo futuro con la lotta!
NO al MUOS – NO all’Imperialismo
Fuori l’Italia dalla NATO
Fuori la NATO dall’Italia

Fonte: sito del Partito Comunista
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Tre proposte comuniste su Lavoro, Europa e Nato


domenica 22 giugno 2014

La corruzione intrinseca del Capitalismo



Oggi vi posto un articolo di qualche giorno fa, firmato dal compagno Salvatore Vicario, militante del Partito Comunista, e pubblicato su Senza Tregua.
La sua riflessione sulla corruzione intrinseca al sistema capitalistico è molto interessante, perché smaschera uno dei principali luoghi comuni: la corruzione non è una anomalia, ma una caratteristica propria del Sistema.

Una breve riflessione sul fenomeno della corruzione. Nell’ultimo periodo uno dei temi più presenti nell’agenda politica e mediatica è stato proprio il “fenomeno corruzione” con grande risalto all’operosità del Governo Renzi che starebbe predisponendo il ”Decreto Anticorruzione” con relativo dibattito su di esso. Nel bel mezzo di questo sono “esplosi” però due grandi casi di corruzione: l’EXPO (Lombardia) e il MOSE (Venezia). Tutti i media sono sul pezzo con esimi intellettuali a pressare per una legge che faccia “pulizia” nel sistema, con politici o politicanti che si lanciano accuse a vicenda invocando l’etica e la diversità di ognuno, rispolverando perfino in modo grottesco la “questione morale” di berlingueriana memoria in senso giustizialista come fatto dal M5S. Questo fenomeno viene affrontato e analizzato semplicemente come un fatto di malcostume della classe (casta) dirigente politica che sarebbe ormai “fuori controllo” e addirittura espressione allo stesso tempo di un malcostume radicato nella società. Finendo inevitabilmente con l’inneggiamento alle manette della magistratura e alla necessità di leggi più stringenti. Questo metodo completamente fuorviante quanto inutile, ormai è prassi comune anche in una certa sinistra a cui andrebbe rispolverato al posto della “questione morale”, il richiamo di B. Brecht: “Compagni, parliamo dei rapporti di produzione”.
Il fenomeno corruzione non può esser estraniato dai rapporti sociali, pertanto è prettamente una “questione di classe”. Prima di tutto, l’attuale classe politica dirigente italiana non è “rappresentante” della società universalmente intesa (o peggio ancora di sé stessa), ma della grande borghesia monopolistica italiana e internazionale. Secondo, la corruzione si sviluppa con il capitalismo e fin dagli albori di questo modo di produzione non è stata altro che una modalità usata nel suo procedere storico, nel  tentativo di governare il conflitto tra le classi.
Engels a proposito affermava che nella “repubblica democratica […] la ricchezza esercita il suo potere indirettamente, ma in maniera tanto più sicura. Da una parte nella forma della corruzione diretta dei funzionari, della quale l’America è il modello classico, dall’altra nella forma dell’alleanza tra Governo e Borsa”.  
Come in altre occasioni, ogni grande scandalo è l’occasione per riproporre la truffa ideologica contro le masse lavoratrici e popolari, diffondendo l’idea che la corruzione sarebbe un “cancro” nel sistema, dovuto all’invadenza politica e dei partiti nell’economia e che una maggiore libertà nel mercato sarebbe garanzia del funzionamento del sistema. Nulla di più falso.
Le origini e motivi della corruzione vanno ricercati nel nucleo centrale del capitalismo, in una società che si basa sulla divisione sociale, lo sfruttamento, il saccheggio di risorse e la diseguaglianza. Il Capitalismo come espressione della sua Dittatura ha nella corruzione una delle forme di sfruttamento contro la classe operaia, i settori popolari e le sue risorse (in questo caso il capitale pubblico). La borghesia, oltre lo sfruttamento ottenuto nell’ambito della produzione, articola tutto un sistema di strutture clientelari, favori e pressioni per ottenere ancor più profitti. La corruzione in definitiva va affrontata come una delle forme per ottenere profitti dal lavoro, gravando ancor più sulle spalle dei lavoratori e sulla ricchezza prodotta dalla classe operaia.
La formazione capitalista italiana ha una lunga tradizione di strutture corrotte, pertanto, da una prospettiva storica si tratta di un processo costante e intrinseco al sistema socio-politico capitalista e liberal-democratico, dalla sua formazione statale e costituzionale post-guerra fino al suo sviluppo attuale. Tutti i partiti organici al potere della borghesia sono implicati in questi processi, senza alcuna differenziazione “morale” o “storica” tra partiti di “destra” “centro” “sinistra” borghese, come propriamente dimostrano (se ce ne fosse ancora bisogno) gli ultimi eventi di questi giorni prima citati. La classe che detiene il potere economico e politico costruisce con il suo personale politico una fitta rete di interscambio di favori (che necessita della corruzione) e in particolare nei momenti di crisi, dove il capitale ha profondi problemi nella riproduzione del suo tasso di profitto, gli imprenditori non esitano a fare ricorso ad ogni mezzo per cercare di migliorare lo sfruttamento e almeno a mantenere quello stesso tasso.
 La crisi strutturale del capitalismo, spinge le classi dominanti da un lato ad attaccare i diritti dei lavoratori e dall’altro a recuperare la “caduta tendenziale del saggio di profitto” attingendo soldi direttamente dalle casse pubbliche (parte del plusvalore estratto alla classe lavoratrice tramite le tasse), attraverso privatizzazioni, svendite di patrimonio pubblico, finanziamenti e appalti di lavori pubblici facendo leva direttamente sul loro Stato, istituzioni e apparati politici. E’ così che si realizza il trasferimento di capitali nelle tasche di una cerchia di grossi imprenditori legati a doppio filo con “uomini” politici nelle istituzioni che ricevono la loro quota per il servizio reso. Un fenomeno pagato dalla classe operaia, dai settori popolari e dalla gioventù col nostro lavoro e denaro, cui toccano solo sacrifici, con sempre maggiori ostacoli all’eccesso al diritto alla salute, all’istruzione, ad un trasporto pubblico di qualità ecc…
I “grandi scandali” sono solo la punta dell’iceberg su cui interviene la magistratura e si imposta il dibattito pubblico, spesso gestito in modo funzionale, come in passato già accaduto, solo per adeguare il sistema alle fasi storiche. Così fu ad esempio per “tangentopoli” e così sarà anche in questo caso: la classe padronale proseguirà nei suoi fini, perfezionando la macchina e assumendo sempre più direttamente la gestione politica ed eliminando gli intermediari.
Non saranno appelli moralistici ed etici, né le forche mediatiche su cui spesso si vogliono costruire le carriere politiche e giornalistiche, che scalfiranno questo fenomeno, essendo esso strutturale e intrinseco alla formazione sociale capitalista, sviluppandosi dai suoi rapporti e permeando l’intera società. Solo venendo meno le sue basi materiali si potrà eliminare il fenomeno della corruzione.
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sabato 21 giugno 2014

100 regole per il militante comunista



Vi posto un interessante documento, tratto dalla pagina facebook dei Maestri del Socialismo, in cui vengono elencate poco più di cento regole atte a forgiare e indirizzare il militante comunista.
Come si vedrà, sono regole semplici eppur fondamentali per chi decide di dedicare la propria vita alla lotta, al cambiamento sociale, alla libertà e all'eguaglianza nella solidarietà.

Quello che segue è una piccola dispensa di formazione con più di 100 idee che permetteranno di sviluppare la militanza di ogni sincero comunista al servizio dell'organizzazione proletaria rivoluzionaria. Scritti dalla UJCE (Unione delle Gioventù Comuniste di Spagna) e denominate "La cassetta degli attrezzi" quelli che seguono sono concetti utilissimi per servire da consigli - o semplici riflessioni - riguardo le modalità più adeguate di praticare una militanza quotidiana, così come di avere una buona cultura politica di base. Si ringrazia il compagno Francesco Delledonne, coordinatore dei Giovani Comunisti di Milano, per la traduzione (dal sito http://archivo.juventudes.org/) e diffusione.

IL CONCETTO DI ORGANIZZAZIONE
1. Organizzarsi è distribuire incarichi e mettersi al lavoro.
2. La nostra cultura è metodo di lavoro, metodo di organizzazione, metodo di intervento politico.
3. Tutti abbiamo un incarico di cui rendere conto.
4. In una organizzazione marxista-leninista non c'è distinzione dirigenza-base. Dal momento in cui assumi un incarico di cui rendere conto, fai già parte della dirigenza a un certo livello.
5. L'organizzazione non è un ente astratto, sono tutti e ciascuno dei suoi militanti. È una unità superiore alla somma delle parti, perché i militanti sono uniti da un progetto, da una strategia, una cultura e un metodo.
6. Il lavoro fondamentale dell'organizzazione politica è verso l'esterno, verso la società. Verso l'interno rimane solo il mantenimento e l'estensione dell'apparato e la formazione dei quadri.

LA MILITANZA E I QUADRI
7. Un quadro è uno che sa agire in qualsiasi circostanza e situazione all'interno della linea politica dell'organizzazione.
8. Un quadro non è un robot che fa quello che gli si ordina, né un pappagallo che ripete indicazioni lette nei libri o sentite da qualche parte. Un quadro non è un "monaco soldato" che combatte e indottrina.
9. Un quadro analizza la realtà che lo circonda a tutti i livelli, organizza le persone intorno a problemi e interessi concreti, cercando sempre soluzioni collettive, agisce per legarsi alle persone verso cui si dirige, non solo ai comunisti.
10. Ogni militante passa, inevitabilmente, attraverso varie crisi nella sua militanza. La prima di questa è la "crisi del primo anno (approssimatamente)", nella quale il militante inizia a rendersi conto del senso di ciò che sta facendo come militante comunista, al di là delle simpatie e dei desideri astratti di "fare delle cose". Solitamente si verifica la prima volta in cui dà la priorità al collettivo rispetto a qualcosa di personale.
11. La "sindrome della prima difficoltà", che non ha a che vedere con la "crisi del primo anno", si ha quando il militante si trova di fronte per la prima volta un compito importante e fallisce. Quindi si aprono diversi cammini: rinunciare, andare alla ricerca di responsabili [...] o analizzare gli errori commessi e impegnarsi a superarli individualmente e collettivamente. Quest'ultima opzione è quella che ci converte in quadri. Arricchirà l'organizzazione e ci arricchirà come persone.
12. La "sindrome dell'ultima tappa" si ha quando un militante ha esaurito un ciclo nell'organizzazione (che sia a livello di collettivo, regionale o centrale) e non vuole ammetterlo. Quando un militante esaurisce un ciclo e non è in grado di riconoscerlo, si converte in un problema. In questa sindrome operano difetti concreti come l'individualismo, il ritenersi indispensabile, il disprezzo e la sottovalutazione verso i nuovi quadri, credere che l'organizzazione sia di propria proprietà, ecc.



13. La versione più grave della "sindrome dell'ultima tappa" si ha quando il militante deve lasciare l'organizzazione. A quel punto si manifesta come un acuto sentimento di credersi insostituibile o come una paranoia perfezionista che pretende di risolvere assolutamente tutti i problemi prima di lasciare l'organizzazione.
14. Quando militi in una organizzazione-scuola, gli sbagli, gli errori, sono inevitabili e necessari se vogliamo imparare qualcosa.
15. Ogni militante, non importa la sua esperienza, la sua formazione o la sua convinzione, è pieno di pregiudizi, di valori e di comportamenti propri dell'ideologia dominante.
16. Se con l'essere un militante comunista uno fosse già libero dai pregiudizi, se il lavoro militante fosse facile, se il rapporto fra rivoluzionari fosse semplice, la rivoluzione sarebbe già stata fatta da parecchi anni.
17. Il lavoro dei comunisti è sistematizzare, dare un senso all'interno di una strategia generale a tutte le lotte parziali, tutti i mezzi di lotta all'interno di una strategia generale, orientando tutto verso obiettivi concreti, all'interno di una fase concreta della rivoluzione.
18. Il legame del militante all'organizzazione è politico, non emotivo/emozionale.
19. È imprescindibile saper separare il personale dal politico.
20. L'organizzazione non esiste per cercare amicizie e relazioni amorose, anche se può succedere.
21. Un comunista non è mai solo: ha, da un lato, la solidarietà incrollabile dei suoi compagni; dall'altro, si lega ad ampi settori ed è un referente nel suo campo d'azione.
22. La pazienza è la virtù più grande del rivoluzionario.
23. La nostra cultura militante, il nostro concetto di militanza è quello dello sforzo e della responsabilità, non del sacrificio e della colpa.
24. Il sacrificio e la colpa sono valori cristiani. La militanza esige sforzi grandi e piccoli però, soprattutto, costanti e quotidiani.
25. Concepire la militanza come sacrificio presuppone concepire la lotta a partire dalla privazione, dalla costrizione, dal contenimento.
26. La Rivoluzione non è privazione, è creazione. Per questo noi "non renunciamo né alla Rivoluzione né all'allegria".
27. "L'allegria di fronte agli oppressori è la vittoria della resistenza". (Che Guevara)
28. La colpevolezza implica castigo, penitenza. La responsabilità collettiva implica solidarietà, autocritica, disciplina consapevole e miglioramento di sé.
29. Essere direzione, essere dirigente, vuol dire essere responsabile, dal momento in cui ci si assume un incarico al momento in cui si rende conto di esso.

LO STILE DI LAVORO NEI FRONTI DI LOTTA
30. La militanza nella Gioventù Comunista non è nulla se non è accompagnata da lavoro di massa, da lavoro nei fronti di lotta.
31. Il lavoro dei comunisti è aprire fronti di massa all'interno della loro strategia.
32. Mettere le masse nell'organizzazione politica a discapito dei fronti è eurocomunismo.
33. Quando il partito può tutto e le masse solamente osservano e delegano, è eurocomunismo.
34. Mai si è costruita una avanguardia o si è conquistata egemonia vincendo una votazione congiunturale.
35. Non confondere l'avanguardia con l'andare da soli. L'avanguardia non è andare da soli, è andare avanti "con gli altri".
36. Il carattere di avanguardia si può conquistare e si può perdere, si può condividere o no, ma mai viene attribuito a tavolino.
37. Non confondere l'egemonia con l'egemonismo. Cercare la maggioranza aritmetica è egemonismo. Egemonia è unire un'ampia alleanza intorno alle proprie proposte, ai propri principi, ai propri valori, attraverso l'esperienza e la pratica.
38. Non confondere la firmezza negli obiettivi (strategia) con il massimalismo. Massimalismo significa che in ogni situazione politica si cerca di ottenere "tutto o niente, adesso o mai più... e se si è da soli, meglio."
39. Non confondere la flessibilità nelle "forme" (tattica) con il possibilismo. Possibilismo significa che in ogni situazione politica si cerca di ottenere tutto il possibile senza cambiare i rapporti di forza e perciò rendendo impossibile il cambiamento reale.
40. Essere minoranza in un movimento però rispettare gli accordi senza rompere con il movimento permette di ottenere il rispetto e la fiducia di TUTTO il movimento.
41. Le manifestazioni non appartengono a delle sigle né a chi le convoca, appartengono a ogni persona che faccia proprie le parole d'ordine che muovono la manifestazione, che faccia propria questa lotta.
42. Uno slogan non ha l'obiettivo di dimostrare quanto siamo "rossi", ma deve dimostrare che i problemi hanno una soluzione, che è possibile organizzarsi, combattere e vincere.
43. Gli slogan "comunisti" nelle manifestazioni sono solo validi nelle manifestazioni di soli comunisti.
44. Le manifestazioni di soli comunisti sono i congressi, le conferenze e la Festa del Partito.
45. Se il settarismo è mettere se stessi davanti agli interessi del movimento, [...] non c'è nulla di più settario del credere che l'organizzazione basti per se stessa per fare la rivoluzione.
46. Una manifestazione organizzata con altre persone si fa con delle parole d'ordine unitarie che vanno rispettate.
47. L'organizzazione subisce gli effetti dei cicli di mobilitazione e di conflitto sociale in grado più o meno forte in funzione della sua solidità organica, ideologica e politica.
48. Nei momenti critici di una mobilitazione, se l'organizzazione è orientata verso l'esterno si espande, cresce e incrementa notevolmente la sua militanza, rendendo il lavoro politico appassionante, creativo e vigoroso.
49. Quando si esaurisce il ciclo, i militanti occasionali si allontanano e il lavoro si fa più mediocre e pesante.
50. In momenti di calma, l'organizzazione si restringe, ma bisogna evitare che si ripieghi su se stessa. Ogni conflitto interno implica la ritirata.
51. I momenti di calma sono propizi per il lavoro di lungo termine: la stabilizzazione dei fronti di massa nati nel calore della mobilitazione, la formazione dei militanti perché il minor numero possibile se ne vada a casa, il rafforzamento dell'organizzazione. Sono periodi di accumulazione, di crescita lenta.
52. Nei momenti di calma, bisogna stabilizzare i fronti di lotta creati nel calore della mobilitazione, stabilizzare le alleanza e formare i quadri.
53. Se l'organizzazione si riduce nei momenti di calma è perché è debole, non [per forza] a causa di una direzione sbagliata.
54. Se i quadri abbandonano l'organizzazione durante i cicli di mobilitazione, questo indica una debolezza ideologica dell'organizzazione.
55. Se la propaganda piace solo ai militanti, vuol dire che è fatta male.
56. La propaganda deve convincere quelli non convinti, non riaffermare costantemente a quelli già convinti.

L'ORTODOSSIA: QUESTA GRANDE SCONOSCIUTA
57. Il marxismo non è un libro di ricette, è il metodo di analisi.
58. Il leninismo non è un libro di citazioni, è il metodo di lavoro esterno e interno.
59. La formazione è essenziale, però un'organizzazione incentrata nella formazione diventa un gruppo di studio.
60. Organizzazione-scuola significa apprendere lottando, non essere una scuola nel senso accademico.
61. Nessuno entra nella Gioventù Comunista essendo già marxista o comunista. Chi crede questo, si sbaglia.
62. Le competizioni fra chi è più di sinistra, più leninista o più ortodosso, sono infantili e nascondono sempre un'attitudine leggera nei confronti del lavoro politico.
63. La ortodossia nel marxismo, come diceva Lukács, è circoscritta a questioni di metodo.
64. La politica non è folklore.
65. Il folkore è per i bar.
66. L'ortodossia non è il folklore.
67. L'ortodossia, nel senso buono del termine, è il metodo di analisi, il metodo di intervento politico, lo stile di lavoro.

SU DINAMICHE E GRUPPI DI LAVORO: CRITICA, AUTOCRITICA, FIDUCIA
68. Al principio marxista della critica spietata si deve aggiungere il principio leninista della fiducia incrollabile fra rivoluzionari.
69. I gruppi di direzione sviluppano le decisioni degli organismi di direzione a cui devono rendere conto, e assumono decisioni all'interno della linea politica dei congressi, delle conferenze e di questi.
70. Nessuna critica è legittima se non è accompagnata da soluzioni, lavoro e corresponsabilità.
71. Le differenze non generano inevitabilmente mancanze di fiducia.
72. Qualsiasi sfiducia, per piccola che sia, ben alimentata può portare a una scissione.
73. La maggior parte delle differenze e dei problemi interni hanno un'origine personale o giungono al punto di rottura quando si introduce l'elemento personale, la mancanza di fiducia.
74. Le differenze gravi sono di tipo politico, in particolare politico-ideologico e politico-strategico. Queste possono convertirsi facilmente in scontri, il resto no.
75. La sfiducia e le differenze personali tendono sempre a nascondersi dietro a differenze politiche gravi. Nella maggior parte dei casi la differenza politica è insignificante, ma la sfiducia la alimenta interessatamente.
76. Per superare una mancanza di fiducia, sono imprescindibili la sincerità e la responsabilità.
77. Un gruppo di lavoro si basa sulla fiducia reciproca. Senza di essa, diventa un CDA aziendale.
78. Il metodo di lavoro di un gruppo dirigente comunista è la fiducia, la corresponsabilità, la responsabilità individuale, la direzione collettiva, la solidarietà. Il metodo di lavoro in un gruppo dirigente di un'impresa è la mezza verità, la bella mostra personale, la competizione.
79. In un gruppo dirigente comunista, i quadri fanno il proprio lavoro e contribuiscono perché gli altri lo facciano per il bene dell'organizzazione. in un gruppo dirigente di un'impresa, i quadri fanno il proprio lavoro e si intromettono e criticano quello degli altri per interessi personali e di gruppo.
80. Di fronte a un errore collettivo, non si può dire "io ho fatto la mia parte, non ho colpa". Questo è individualismo.
81. Nel lavoro politico non c'è angoscia, c'è tensione.
82. La tensione aiuta il lavoro.
83. La tensione che non aiuta il lavoro è angoscia.

IL RAPPORTO DIREZIONE-BASE
84. Dirigere è gestire le contraddizioni: evitare che diventino conflittuali e trasformarle in complementari.
85. Ogni ricerca di punti di rottura nel seno dell'organizzazione, ogni atteggiamento che acutizza un confronto è una grave irresponsabilità.
86. Le direzioni in senso lato (tutti i quadri, tutti quelli con responsabilità, tutti i militanti) devono gestire le contraddizioni interne per neutralizzarle e superarle, non per alimentarle. Ognuno deve fare la propria parte.
87. La dinamica di costante discussione e dibattito negli organismi senza divisione di lavoro concreto è parlamentarismo.
88. La dinamica di critica costante, senza fornire soluzioni, è un tipo specifico di dinamica parlamentarista, il tipo di dinamica "governo-opposizione".
89. La dinamica interna "governo-opposizione" si nasconde sempre in un divorzio fra direzione e base.
90. La dinamica interna "governo-opposizione" distrugge il senso collettivo del lavoro e la corresponsabilità. Pone le basi per la frattura dell'organizzazione, anche se questo non è il suo obiettivo. È incompatibile con un'organizzazione centralista democratica, marxista-leninista.
91. Rompere le dinamiche parlamentariste non significa escludere la critica o le opinioni divergenti, ma renderle compartecipi del lavoro collettivo.
92. Quando una direzione si distacca dai collettivi, bisogna riconnetterla.
93. Le direzioni non sono infallibili, né tantomeno i compagni con responsabilità, se si sbagliano bisogna aiutare.
94. La direzione è collettiva, la responsabilità è individuale. Questo significa che gli incarichi concreti possono fallire individualmente, ma se l'organizzazione nel suo insieme va male, il problema è collettivo, politico.
95. Considerare un problema dell'organizzazione e quindi collettivo, politico, come una responsabilità o "colpa" esclusiva "della direzione" è fuori da una concezione collettiva dell'organizzazione. A meno che ci siano differenze politiche gravi (ideologiche e/o strategiche) nel qual caso l'organizzazione affronta una crisi.
96. Le contraddizioni interne si superano con lavoro, lavoro e ancora lavoro.
97. I metodi e il lavoro politico superano i problemi, i metodi amministrativi li nascondono.

IL VELENO O LA SEMINA DELLA SFIDUCIA
98. Osservato costantemente per mezzo di un microscopio, il lavoro di nessuno è molto brillante.
99. Nelle questioni politiche, ci si deve fidare prima di un compagno che di qualsiasi altro.
100. Mai parlare pubblicamente male di un compagno.
101. Quando c'è un qualunque tipo di problema con un compagno, bisogna parlarne direttamente con questa persona prima che con qualiasi altro.
102. I commenti che seguono a espressioni come "io non voglio dire nulla, però..." o "io non so nulla, però..." o "io non interferisco, però...", sono veleno.
103. Avvelenare, intossicare significa generare un clima di sfiducia verso i responsabili da parte degli irresponsabili.
104. Una volta immesso il veleno nell'organismo, intossicata l'organizzazione, nessuno può controllarlo. Solo fra tutti, collettivamente, si può trovare la cura, la disintossicazione.
105. Le verità responsabili, che aiutano l'organizzazione per quanto dure che siano, si dicono in faccia, i veleni invece vengono detti a lato o alle spalle.

LO STILE DI LAVORO INTERNO
106. La direzione collettiva implica che i successi e gli errori sono collettivi: di fronte ad un errore, tutti devono partecipare alla soluzione.
107. La piena fiducia interna è sintomo inequivocabile di solidità organica e ideologica.
108. Le decisioni degli organi di direzione sono pubbliche, i dibattiti no.
109. Votare negativamente a un rapporto autocritico è linciaggio personale o disfattismo.
110. Votare negativamente o astenersi su una proposta che comprende se stesso è ipocrita.
111. I dibattiti sul metodo diventano burocratici quando si antepone la forma al contenuto in decisioni che non sono contrarie agli statuti o che non sono fuori dalla politica dell'organizzazione.
112. Il centralismo democratico non implica che l'organismo centrale faccia tutto, ma che tutte le strutture unifichino i propri sforzi, le proprie politiche, le proprie risorse.
113. Gli organi di direzione centrali lo sono di tutta l'organizzazione e dirigono la politica di tutte le strutture dell'organizzazione.
114. Un responsabile politico è un direttore d'orchestra, non un uomo-orchestra.
115. I responsabili, ad ogni livello, con qualsiasi incarico, aiutano il lavoro, non fanno tutto il lavoro.
116. Non ci si occupa di nessun problema se non c'è la volontà di trovare soluzioni.
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venerdì 20 giugno 2014

Voci dall'Ucraina resistente



Pubblico oggi un articolo tratto dal blog sull'Espresso di Nicolai Lilin, scrittore famoso per "Educazione Siberiana" e per altri splendidi romanzi.
In questo articolo c'è la traduzione di una Intervista ad una ragazza ucraina (clicca) che sta combattendo nella resistenza popolare contro il regime di Kiev. Un regime, è bene ricordarlo, sostenuto e finanziato dagli USA; un regime che si serve di squadre nazifasciste per assassinare il proprio popolo, "colpevole" di non sostenere il colpo di stato filoeuropeo realizzato due mesi fa.

“Buongiorno, mi chiamo Elena, mi trovo nella città di Slavyansk. Io vivo in questa città, sono nata e cresciuta qui. Sono entrata nella difesa popolare perché non potevo più sopportare l’orrore delle aggressioni che stiamo subendo. Nella nostra città non c’è luce, nelle case non c’è acqua, le persone vanno a prenderla dalle fontane.

L’esercito ucraino ci sta bombardando ogni giorno, per ordine della giunta golpista di Kiev. Stanno usando contro di noi l’artiglieria, gli aerei da guerra. Buttano le bombe sulle zone abitate. I cittadini rimangono senza le loro case, non hanno niente da mangiare, costretti a vivere nelle cantine. Intere famiglie, anche con bambini piccoli, vivono sotto terra. Non tutti sono riusciti a lasciare la città, qui è rimasta gran parte dei cittadini civili. Fino a quando dovremo sopportare queste ingiustizie? Com’è possibile che il governo mandi contro il proprio popolo un esercito composto da non si capisce chi: estremisti del Settore Destro (organizzazione neonazista ucraina sponsorizzata dal governo attuale, ndt), mercenari o semplicemente delinquenti comuni.

La propaganda ucraina dice che tra noi ci sono dei mercenari, dei ceceni, soldati di Kadirov. Io non ho ancora visto nessuno di loro. Noi siamo persone semplici, cittadini di Slavyansk, difendiamo la nostra città. Vogliamo vivere, non esistere, ma vivere.

Qui accadono cose terribili. Qualche giorno fa un aereo militare ucraino si è nascosto dietro un aereo civile di linea. Quando è passato sopra la città si è abbassato, ha bombardato una zona abitativa nelle vicinanze, un paesino che si chiama Semyonovka, e poi si è nascosto di nuovo dietro l’aereo con i civili a bordo. Noi l’abbiamo visto ma non abbiamo potuto abbatterlo, perché avremmo sicuramente potuto colpire anche l’aereo civile. L’esercito ucraino vuole provocarci per creare un caso mediatico, per poter dire che siamo terroristi che abbattono gli aerei civili.

Qui non ci sono terroristi, ci sono le persone semplici che sono uscite dalle loro case per difendere la loro città. Persone che non riescono più a sopportare tutto questo orrore. Qui ci sono bambini, ci sono anziani, veterani della Seconda Guerra Mondiale che sono costretti a rivivere momenti drammatici. E’ possibile che al governo non sia rimasto più niente di umano?”
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giovedì 19 giugno 2014

Antifa, binari e bastoni



In ogni scuola o piazza, strada o stazione,
assaggerai i miei anfibi, la rabbia del bastone
che porto con me sempre, senza alcun perbenismo.
Colonna del mio essere è sempre antifascismo!
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mercoledì 18 giugno 2014

Giulietto Chiesa: "L'Ucraina è una miccia ancora accesa"



Oggi vi posto un interessante articolo di Giulietto Chiesa, tratto dal suo blog personale. Chiesa traccia una riflessione interessante sul presente e, soprattutto, sul futuro dell'Ucraina, della Crimea, della Russia e dei rapporti tra il Cremlino e il cosiddetto Occidente.

La crisi ucraina è sparita dalle pagine, non solo dalle prime pagine dei giornali; è sparita anche dai telegiornali. Il pubblico occidentale, europeo, italiano, potrebbe pensare che sia finito tutto: finalmente, un problema in meno. Così si può tornare a trangugiare il beveraggio abituale di gossip.

Spiacente di comunicare che la crisi ucraina si sta avvitando ad alta velocità e, molto presto, tutti si troveranno di fronte alla necessità di doverne parlare, loro malgrado. Le ultime notizie sono campanelli d'allarme che trillano, sirene di avvertimento. Si misuri, per esempio, l'annuncio del facente funzione di ministro della Difesa ucraina, Mikhail Koval' nella riunione del Consiglio dei Ministri del 10 giugno: verranno istituiti "speciali campi di filtraggio" che dovranno permettere di individuare tutti coloro che hanno partecipato alle rivolte nel sud-est del paese (tutti i maggiorenni, maschi e femmine), per poi avviare la loro "ridislocazione" in altre zone del paese. In altri termini Kiev si prepara a costruire campi di concentramento, nei quali rinchiudere tutti i ribelli e, simultaneamente, prepara la deportazione di decine di migliaia di persone lontano dalle loro aree di residenza.

Nel frattempo è già terminata ogni illusione che il nuovo presidente Petro Poroshenko sia disposto a un qualsiasi cessate il fuoco e a un inizio di negoziato con i ribelli del Donbass e del Lugansk. L'offensiva militare contro il "nemico russo" continua, si intensifica, assume sempre di più il carattere di una guerra di sterminio della popolazione civile, oltre che dei difensori armati in rivolta. È un governo che, apparentemente in modo assurdo, bombarda e distrugge la propria popolazione, ma anche case, infrastrutture, beni pubblici e privati, cioè infliggendo un danno grave alla propria economia e alla propria ricchezza.

In realtà tutto ciò potrebbe non essere niente affatto assurdo se venisse interpretato come una premessa necessaria per una completa pulizia etnica del paese. Dietro questa linea c'è molto di più che una volontà di ripristinare lo status quo ante e l'unità dello stato ucraino qual era prima del 22 febbraio 2014. C'è una volontà di vittoria totale sulla componente etnica russa, ormai percepita come "nemico russo", i moskalì da estirpare, da neutralizzare e da costringere alla fuga dai territori storici di residenza. Questa volontà ha ormai il sostegno (più o meno consapevole degli effetti che è destinata a produrre, nazionalmente e internazionalmente), di una larga parte dell'opinione pubblica ucraina delle aree occidentali.



Su queste basi, e potendo godere del pieno sostegno degli Stati Uniti e di una parte importante dei paesi dell'Unione Europea, il governo di Kiev ha assunto, come fondante della sua "rivincita" storica, l'ideologia della "ucrainizzazione" totale dello stato e sta procedendo verso la costruzione forzata e violenta di uno stato etnocratico degli ucraini. Vedremo più avanti cosa questo significa per la Russia e quali problemi ciò aprirà sia davanti a Mosca, sia davanti a Bruxelles e a Washington.

Ma va tenuto conto anche - e in modo decisivo - che di questa linea è parte integrante la rivendicazione del territorio della Crimea. E qui la questione si complica e s'ingigantisce in modo preoccupante. La Crimea, diversamente dal Donbass, è ormai parte integrante del territorio statale della Federazione Russa, che vi ha istituito due nuovi soggetti federali, appunto la Repubblica di Crimea e la Città di Sebastopoli.

È evidente che, sebbene per la Russia la questione sia, politicamente e praticamente risolta (dopo il referendum stravinto senza alcun dubbio), invece, dal punto di vista giuridico e del diritto internazionale, ivi incluso il mancato riconoscimento da parte di tutti i paesi occidentali, essa rimarrà a lungo come una ferita aperta. E non è una ferita di poco conto, perché metterà la Russia in contrasto diretto con la Nato, essendo evidente che - come risultato del colpo di stato del 22 febbraio - l'Ucraina sarà prestissimo un membro effettivo dell'Alleanza Atlantica (uno degli obiettivi già centrato dagli Stati Uniti).

E qui si apre la questione del rapporto tra Russia e Occidente nel suo complesso. Qual è la frontiera lungo la quale sarà possibile convivere? Quale sarà il grado di autonomia di Poroshenko, sia verso il suo proprio "interno", sia verso i suoi consiglieri e mentori esterni, in primo luogo Stati Uniti e Polonia? E quale sarà la linea che Putin adotterà, di fronte a una serie assai grave di colpi già subiti e di altri che potranno essergli inferti (sanzioni economiche prima di tutto, accerchiamento energetico etc)? Senza dimenticare che il vertiginoso consenso da lui accumulato con il successo di Crimea e di Sebastopoli sarà nei prossimi mesi gravemente lesionato dalla necessità di subire il massacro e l'umiliazione, per non dire la deportazione, dei russi di Ucraina.

Tutti questi interrogativi irrisolti dicono che la battaglia per l'Ucraina sta entrando in una fase assai più pericolosa di quanto molti, sia in Occidente che in Russia, potessero pensare nei primi mesi del 2014. Si tratta di un vero e proprio conflitto internazionale. Che si trova già in uno stadio in cui Putin ha un numero limitato di gradi di libertà e, dunque, potrà fare poche o nulle concessioni ulteriori.

Una - la più importante di tutte - l'ha già fatta: facendo capire, in tutti i modi possibili, che la Russia non interverrà con le sue forze armate per proteggere le popolazioni del sud-est ucraino dall'operazione di pulizia etnica messa in atto dal governo di Kiev. Ma, anche in questo caso, non è detto che "tutto possa" praticamente colui che "tutto può" teoricamente.

La frontiera tra Russia e Ucraina è lunga e porosa anche se i satelliti vedono tutto. Se i resistenti di Novorossija riescono ad abbattere Iliushin 76 e caccia Sukhoi, la superiorità di Kiev va in fumo e la si dovrà integrare con molti mercenari di varia origine e provenienza, anche se pagati da un'unica ditta, quella della signora Victoria Nuland.

Tutti questi temi renderanno il conflitto lungo e tormentato, oltre che sanguinoso, tenendo tutti i protagonisti sulla corda, interni ed esterni. C'è tuttavia una prima constatazione: anche se Kiev proclama solennemente la sua intenzione di ricomporre l'unità territoriale del paese, un ritorno allo status quo ante il golpe è molto improbabile. Se vi si aggiunge l'intenzione di costruire un nuovo unitarismo sulla base della "ucrainizzazione totale", esso diventa impossibile. In ogni caso è un esito che diventa tanto più impraticabile - insopportabile per la Russia e per i russi - quanto più aumenta il bilancio delle vittime e delle distruzioni. E, quanto più aumenta la tensione internazionale, tanto più la base di Sebastopoli si carica del doppio significato di necessità militare-strategica e di bandiera dell'orgoglio nazionale russo, rispristinato e non più modificabile.

Ma guardiamo la questione dal punto di vista del Cremlino. Da quella parte si è già deciso di escludere un intervento militare a difesa delle popolazioni russe di Novorossija. Nello stesso tempo, per evidenti ragioni di diritto internazionale, una soluzione analoga a quella di Crimea è impossibile praticarla con le regioni ribelli del Donetsk e del Lugansk. Per molte ragioni. Una delle quali è la loro composizione etnica, dove la percentuale dei russi, pur largamente maggioritaria, è tuttavia significativamente inferiore a quella di Crimea. Soprattutto una tale soluzione equivarrebbe a un drastico incremento delle tensioni con l'Occidente: cosa che Putin vuole evitare.

Ma Putin potrà adottare una linea morbida, non interventista, soltanto se Kiev non insisterà sulla linea della "ucrainizzazione" totale. Fino ad ora il presidente russo non ha tirato fuori un argomento che è apparso una sola volta in un suo discorso del 2013: quello della sorte delle decine di milioni di russi che si sono trovati, loro malgrado, al di fuori dei confini della Russia a partire dal 1991. Disse in quella occasione che la Russia non avrebbe più potuto restare indifferente di fronte alla violazione dei loro diritti, alla esistenza di discriminazioni, o addirittura a forme di violenza fisica nei loro confronti. Potrebbe essere costretto a farlo (per non trovarsi scoperto sul piano interno), ove l'offensiva antirussa assumesse il carattere di una vera e propria repressione di massa. Ripeto: fino ad ora questo argomento non è stato portato da Putin direttamente ed esplicitamente nel dibattito internazionale. Ma una tale possibilità incombe ed è direttamente proporzionale alla dimensione della violenza che Kiev eserciterà sulle popolazioni russe dell'Ucraina.

Semmai sarà utile tenere a mente che, dal 1991 in avanti, tutti e quattro i presidenti ucraini (Kravchuk, Kuchma, Yushenko, Yanukovic, seppure con diverse intensità, hanno portato avanti, nel corso dei loro mandati, una politica di "ucrainizzazione" dello stato (e della popolazione russa di Ucraina) che ignorava il dato demografico, e cioè che i russi erano e sono una quasi paritetica minoranza e che la lingua e le tradizioni russe avevano e hanno una importanza e un peso straordinariamente alto nella società ucraina.

È altrettanto vero che i governi della Federazione Russa, succedutisi dopo la fine dell'Unione Sovietica, ignorarono il problema. In tutte le direzioni. Lo ignorarono tanto quando si presentò nelle repubbliche del Baltico, quanto nelle repubbliche dell'Asia centrale, quanto in Ucraina. Dove le sue dimensioni sono apparse con tutta la loro portata solo adesso, con l'esplosione dell'offensiva nazionalista e nazista del colpo di stato del 22 febbraio 2014: quando ben 20 milioni di russi si sono trovati non solo sbalzati fuori dall'Unione Sovietica, ma inseriti in uno stato che non li sopporta e che intende duramente disfarsene.

Un punto che sembra sfuggire ai leader europei (e totalmente alla leadership americana) è che il popolo russo di Ucraina ha dovuto sopportare un brusco risveglio, che gli è stato imposto dagli eventi. La risposta della Crimea è stato come un grido di angoscia collettivo, prima ancora che una scelta politica. E quel grido è risuonato fortissimamente in tutta la Russia, prima ancora che nelle regioni del Donbass e del Lugansk. Che infine, dopo qualche incertezza, si sono svegliate a tal punto da impugnare le armi.

Spegnere quel lamento e quella riscossa è ora impossibile. Certo la costrizione dei rapporti di forza internazionali impedisce ora a Putin di correre in loro difesa. E rende estremamente difficile, oltre che pericolosa per la pace internazionale, l'ipotesi di una loro accettazione come nuovo soggetto - la Novorossija - nella Federazione Russa. Ma questo non chiude affatto l'altra ipotesi: quella della costituzione di un terzo stato russo, la Novossija, dopo la Russia e la Bielorussia.

La possibilità di realizzazione di questa ipotesi è ora pressoché interamente dipendente dall'esito del conflitto militare in corso. Kiev non è in grado di risolverlo in proprio favore con l'uso della forza. Potrà tentarlo (anzi lo sta tentando) solo con un massiccio aiuto militare, di uomini, di mezzi, di armamenti, di denaro, da parte dell'Occidente, in primo luogo degli Stati Uniti, della Polonia e delle repubbliche del Baltico. E, anche in questa ipotesi, tenere insieme un paese in cui quasi metà della popolazione intende resistere alla violenza della nazionalità dominante e ostile, ai confini diretti del grande paese che è solidale con la minoranza oppressa, sarà impresa non solo difficilissima ma anche tale da minare alla radice l'esistenza di quello stato.

Stupisce che l'Europa non abbia previsto questa catena di conseguenze. Certo non ha previsto il "risveglio russo". Ma ci sarebbe ancora il tempo per una revisione della propria politica. Il che significherebbe segnalare a Petro Poroshenko, con la necessaria durezza, che deve cambiare direzione, anche contrastando gli ordini che vengono da Washington. Ma non è un tempo lunghissimo. Se si procede come sta avvenendo, con l'offensiva militare, non solo tutti gli ultimi ponti verranno tagliati, ma ci si dovrà preparare a qualche, nuovamente imprevista, contr'offensiva russa.

Putin, non importa come lo si voglia considerare, ha sentito il "risveglio russo". E, nel momento in cui lo si vuole declassare da partner dell'Occidente a "dittatore" da liquidare, si troverà obbligato, anche per difendere se stesso, a rispondere. E la risposta - anche se non sarà un intervento militare diretto in Ucraina - sarà sia globale, cioè su tutti i fronti, a cominciare da quello energetico, da quello strategico militare, da quello dei legami molteplici di tipo economico, commerciale, industriale che sono rimasti molto forti nonostante tutte le operazioni di "ucrainiazzazione" degli ultimi 23 anni, fino all'esercizio della "influenza" russa lungo tutta la lunga frontiera comune.

Che tutto questo non conti, o conti poco, lo possono pensare a Washington, e sbagliano. Ma che non siano capaci di immaginarselo gli artefici brusselliani della cosiddetta "politica di buon vicinato europeo", è francamente sbalorditivo. E dimostrerebbe fino a che punto i dirigenti di questa Unione Europea hanno perduto contatto con la realtà.
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martedì 17 giugno 2014

Un quattordicenne mette a posto Forza Nuova


Due spine che si incrociano non generano corrente. Due maschi o due femmine funzionano alla stessa maniera. Con questa immagine, banale e semplicistica, il movimento di estrema destra italiano Forza Nuova, "gemellato" per sua stessa ammissione coi nazisti greci di Alba Dorata, intende rendere palese le proprie posizioni sui temi dell'omosessualità, della famiglia, dei matrimoni gay e delle adozioni.
Un ragazzo di quattordici anni prende questa immagine e la posta sul proprio profilo facebook, commentando il tutto con un chiaro "che schifo".
Ne nasce una discussione tra coetanei... e sopra potete leggere il post di Matteo.
Quel post andrebbe fatto leggere in tutte le scuole di questa sottospecie di nazione; andrebbe spedito agli assessori di ogni comune, provincia e regione; dovrebbe essere incorniciato nella stanza del Ministro alle Politiche Sociali e alla Famiglia.

Io non ho altro da aggiungere. Lì c'è tutto.
Tutto.
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Brazil 2014, la polizia addestrata dall'FBI



Vi posto oggi un articolo del sito Contropiano.org in cui si fa riferimento ad una notizia data da una agenzia di giornalismo brasiliana. Secondo tale agenzia, le forze dell'ordine brasiliane sarebbero state addestrate, al fine di fronteggiare gli annunciati scontri e rivendicazioni sociali di questi giorni, addirittura da agenti dell'FBI.

É quanto si apprende da un articolo apparso sul sito dell'agenzia di giornalismo d'inchiesta Agência Pública. Un mese prima dell'inizio delle partite, la Segreteria di Sicurezza Pubblica di Rio de Janeiro annunciò che era in atto un addestramento da parte degli agenti dell'FBI alle truppe “di choque”, i reparti antisommossa della polizia militare, e alle truppe del CORE, corpo speciale della polizia civile, per contenere le proteste previste per la Coppa del mondo di calcio.
Il corso di quaranta ore, frutto di una collaborazione offerta dall'ambasciata degli Stati Uniti, prevedeva la formazione per la gestione e il controllo delle folle, dei disordini civili, pianificazione delle operazioni, uso della forza, relazione con i media, uso di mezzi di intelligence e informazioni per identificare possibili atti e attori di vandalismo.
Il corso si è svolto anche in altre città del Brasile, come San Paolo, Brasilia e Fortaleza, oltre che, come si scopre grazie all'inchiesta, all'estero nel Centro di addestramento regionale a Lima, in Perù, e nell'Accademia internazionale per l'adempimento delle leggi (ILEA, in inglese)in El Salvador, entrambi centri di addestramento finanziati dagli USA.
La collaborazione si è scoperta essere parte in un piano di formazione della polizia per i grandi eventi, in vista dei mondiali e delle prossime Olimpiadi di Rio, cominciata nel 2012 e interamente pagata dagli Stati Uniti, al quale han partecipato più di ottocento poliziotti.
L'inchiesta ha rivelato inoltre che uno dei corsi, “controllo marittimo del terrorismo”, si è svolto in una sede di Academi, il nuovo nome della multinazionale Blackwater, la famosa agenzia di contractors statunitense.

Tra gli altri corsi, “relazioni con i media” con l'obiettivo di creare una collaborazione con la stampa per creare un “sentimento di fiducia nella società”, corso che ha visto la partecipazione di numerosi giornalisti; oltre che un corso di “investigazione digitale dei cellulari” tramite l'insegnamento sull'utilizzo di una tecnologia sviluppata da un impresa israeliana, la Cellebrite, creatrice del dispositivo UFED, capace di rubare tutti i dati dei cellulari di nuova generazione.
Le accademie internazionali ILEA, vennero create nel 1995 dal governo Clinton per rilanciare l'alleanza tra il Dipartimento di Stato americano e le polizie di vari paesi del mondo, con l'obbiettivo di difendere i cittadini statunitensi e gli affari di Washington.
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lunedì 16 giugno 2014

Lo spiraglio



Anche se le nuvole sono d'asfalto
e sai che pioverà.
Anche se il Sole è fuggito via,
codardo come un fascista davanti a un partigiano.
Anche se la strada di casa
sta per diventare
un fiume inospitale e pericoloso.
Non dovrai fare altro che alzare lo sguardo
e scrutare l'orizzonte,
alla ricerca di uno spiraglio,
di una speranza.

Quando lo scorgerai,
conoscerai il sapore 
della Felicità.
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E' nato il Fronte Unitario del Lavoratori

E' ufficialmente nato sabato 14 giugno a Torino il FUL, Fronte Unitario dei Lavoratori. La necessità di rilanciare in Italia un percorso politico e sindacale unitario per tutti i comunisti, a partire dai luoghi di lavoro e di conflitto, ha portato alla nascita di questo progetto, che si incarna nel sentiero delle esperienze del PAME in Grecia e del CUO in Spagna.
Di seguito alcune foto dell'assemblea di Torino (tratte da Iskrae), che ha visto la partecipazione di molti lavoratori da tutti i territori.







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domenica 15 giugno 2014

La cortina di ferro di Washington in Ucraina



Vi posto oggi un articolo sulla situazione in Ucraina, tratto da Iskrae.eu e scritto da Diana Johnstone, autrice "Fools’ Crusade: Yugoslavia, NATO, and Western Delusions" (La crociata dei folli: Jugoslavia, NATO, e deliri dell'Occidente)

I leader della NATO in questo momento stanno mettendo in scena in Europa una farsa mirata, diretta a ricostruire una cortina di ferro tra la Russia e l’Occidente.

Con sorprendente unanimità, i leader della NATO fingono sorpresa per eventi pianificati con mesi di anticipo. Gli eventi che essi hanno deliberatamente innescato vengono travisati come un’improvvisa, sorprendente, ingiustificata “aggressione russa”. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno intrapreso un’aggressiva provocazione in Ucraina che sapevano che avrebbe costretto la Russia, in un modo o in un altro, a reagire in termini difensivi.

Non potevano essere esattamente sicuri su come il presidente russo Vladimir Putin avrebbe reagito quando ha visto che gli Stati Uniti stavano manipolando il conflitto politico in Ucraina per installare un governo filo-occidentale intenzionato ad aderire alla NATO. Questa non era una mera questione di “sfere di influenza” sui “vicini prossimi” della Russia, ma una questione di vita o di morte per la Marina russa, così come una grave minaccia alla sicurezza nazionale sul confine della Russia.

Così facendo era stata tesa una trappola a Putin. Sarebbe stato dannato se avesse agito, e dannato se non avesse agito. Poteva reagire debolmente, e tradire fondamentali interessi nazionali della Russia, consentendo alla NATO di far avanzare le sue forze ostili in una posizione di attacco ideale.

O avrebbe potuto reagire in modo eccessivo, inviando forze armate russe ad invadere l’Ucraina. L’Occidente era preparato a questo, pronto a urlare che Putin è “il nuovo Hitler” e a invadere la povera, indifesa Europa, che poteva essere salvata (di nuovo) solo dai generosi americani.

In realtà, la mossa difensiva russa è stata una via di mezzo molto ragionevole. Grazie al fatto che la stragrande maggioranza degli abitanti della Crimea si sentivano russi, essendo stati cittadini russi fino a quando Krusciov con leggerezza conferì il territorio all’Ucraina nel 1954, è stata trovata una soluzione pacifica e democratica. Gli abitanti della Crimea hanno votato per il loro ritorno alla Russia in un referendum che era perfettamente legale secondo la legge internazionale, anche se in violazione della costituzione ucraina, che era ormai a brandelli essendo stata appena violata dal rovesciamento del presidente regolarmente eletto del paese, Victor Yanukovich, facilitato da milizie violente. Il cambiamento di status della Crimea è stato raggiunto senza spargimenti di sangue, col voto popolare.



Ciò nonostante, le grida di indignazione dell’Occidente sono state altrettanto istericamente ostili come se Putin avesse reagito in modo eccessivo e sottoposto l’Ucraina ad una campagna di bombardamenti in stile Usa, o invaso il paese a titolo definitivo – cosa che essi avrebbero potuto aspettarsi che facesse.

Il Segretario di Stato John Kerry ha capeggiato il coro di ipocrita indignazione, accusando la Russia di quel tipo di cose che il suo governo ha l’abitudine di fare. “Non invadete un altro paese con falsi pretesti per affermare i vostri interessi. Si tratta di un atto di aggressione che è completamente inventato sulla base di pretesti”, ha pontificato Kerry. “E’ davvero un comportamento del 19esimo secolo nel 21esimo secolo”. Invece di ridere di questa ipocrisia, media statunitensi, politici ed esperti hanno zelantemente fatto proprio il tema dell’inaccettabile aggressione espansionistica di Putin. Gli europei hanno fatto seguito con una debole, obbediente eco.

E’ stato tutto pianificato a Yalta

Nel settembre 2013, uno dei più ricchi oligarchi ucraini, Viktor Pinchuk, ha pagato per un’elitaria conferenza strategica sul futuro dell’Ucraina che si è tenuta nello stesso palazzo a Yalta, in Crimea, dove Roosevelt, Stalin e Churchill si incontrarono per decidere il futuro dell’Europa in 1945. L’Economist, uno dei mezzi di comunicazione delle élite riferendo su quello che definiva una “dimostrazione di diplomazia brutale”, ha dichiarato che: “Il futuro dell’Ucraina, un paese di 48 milioni di persone, e dell’Europa si stava decidendo in tempo reale”. Tra i partecipanti, Bill e Hillary Clinton, l’ex capo della CIA generale David Petraeus, l’ex Segretario del Tesoro Usa Lawrence Summers, l’ex capo della Banca Mondiale Robert Zoellick, il ministro degli esteri svedese Carl Bildt, Shimon Peres, Tony Blair, Gerhard Schröder, Dominique Strauss-Kahn, Mario Monti, il presidente lituano Dalia Grybauskaite, e l’influente ministro degli Esteri polacco Radek Sikorski. Erano presenti sia il presidente Viktor Yanukovich, deposto cinque mesi più tardi, che Petro Poroshenko recentemente eletto come suo successore. L’ex segretario all’Energia Usa Bill Richardson era lì per parlare della rivoluzione dello shale-gas che gli Stati Uniti sperano di utilizzare per indebolire la Russia sostituendo le riserve di gas naturale della Russia con i prodotti del fracking [fracking: controversa tecnica di fratturazione idraulica per estrarre gas naturale e petrolio dalle rocce di scisto (shale gas), ndt]. Al centro della discussione c’era il “Deep and Comprehensive Free Trade Agreement” (DCFTA) [Accordo di libero scambio globale e approfondito] tra l’Ucraina e l’Unione Europea, e la prospettiva di integrazione dell’Ucraina nell’Occidente. Il tono generale era euforico riguardo la prospettiva di rompere i legami dell’Ucraina con la Russia a favore dell’Occidente.

Un complotto contro la Russia? Niente affatto. A differenza del Bilderberg, gli atti non erano segreti. Di fronte a una dozzina di vip americani e un vasto campione dell’élite politica europea c’era un consigliere di Putin di nome Sergei Glazyev, che ha reso la posizione della Russia perfettamente chiara.

Glazyev ha iniettato una nota di realismo politico ed economico nella conferenza. Forbes ha a suo tempo riferito della “netta differenza” tra i punti di vista russi e occidentali “non sull’opportunità dell’integrazione dell’Ucraina con l’UE ma sul suo probabile impatto“. In contrasto con l’euforia occidentale, il punto di vista russo si basava su “critiche economiche molto specifiche e mirate” circa l’impatto dell’Accordo di scambio sull’economia dell’Ucraina, notando che l’Ucraina aveva un enorme disavanzo dei conti esteri, finanziato con prestiti esteri, e che il conseguente significativo aumento delle importazioni occidentali poteva solo ampliare il disavanzo. L’Ucraina “o farà default per i suoi debiti o richiederà un ragguardevole salvataggio”.

Il giornalista di Forbes concludeva che “la posizione russa è molto più vicina alla verità del felice chiacchiericcio proveniente da Bruxelles e Kiev”.

Riguardo l’impatto politico, Glazyev ha sottolineato che la minoranza di lingua russa nell’Ucraina orientale potrebbe proporre una divisione del paese in segno di protesta contro il taglio dei legami con la Russia, e che la Russia sarebbe legittimata a sostenerli, secondo il Times di Londra.

In definitiva, mentre pianificavano di incorporare l’Ucraina nella sfera occidentale, i leader occidentali erano perfettamente consapevoli che questa mossa avrebbe comportato seri problemi con gli ucraini di lingua russa, e con la stessa Russia. Piuttosto che cercare di giungere a un compromesso, i leader occidentali hanno deciso di andare avanti e di incolpare la Russia per qualsiasi cosa sarebbe andata storta. Per iniziare è andato storto che Yanukovich si sia spaventato di fronte al collasso economico implicito nell’Accordo di scambio con l’Unione Europea. Ha rinviato la firma, sperando in un accordo migliore. Dal momento che niente di tutto questo è stato spiegato chiaramente al pubblico ucraino, ne sono seguite adirate proteste, che sono state rapidamente sfruttate dagli Stati Uniti… contro la Russia.

L’Ucraina come un ponte … o come il tallone di Achille

L’Ucraina, che significa zona di confine, è un paese senza confini storici chiaramente stabiliti che è stato esteso troppo sia verso est che verso ovest. Responsabile di questo è stata l’Unione Sovietica, ma l’Unione Sovietica non esiste più, e il risultato è un paese senza un’identità unitaria e che emerge come un problema per sé stesso e per i suoi vicini.

E’ stata estesa troppo verso est, incorporando un territorio che potrebbe anche essere stato russo, nel quadro di una politica generale per distinguere l’URSS dall’impero zarista, allargando l’Ucraina a scapito della sua componente russa e dimostrando che l’Unione Sovietica era davvero una unione fra repubbliche socialiste uguali. Finché tutta l’Unione Sovietica era gestita dalla leadership comunista, questi confini non erano troppo rilevanti.

E’ stato esteso anche troppo verso ovest alla fine della seconda guerra mondiale. La vittoriosa Unione Sovietica ha esteso il confine dell’Ucraina per includere le regioni occidentali, dominate dalla città variamente denominata come Lviv, Lwow, Lemberg o Lvov, a seconda che appartenesse alla Lituania, alla Polonia, all’Impero asburgico o all’URSS, una regione che era un focolaio di sentimenti anti-russi. Questa mossa è stata senza dubbio concepita come difensiva, per neutralizzare gli elementi ostili, ma ha creato la nazione fondamentalmente divisa e dalle acque agitate che è oggi.

Il rapporto Forbes citato prima ha sottolineato che: “Per la maggior parte degli ultimi cinque anni, l’Ucraina ha praticamente fatto un doppio gioco, dicendo all’UE che era interessata a firmare il DCFTA mentre diceva ai russi che era interessata ad entrare nell’unione doganale”. O Yanukovich non sapeva decidersi, o stava cercando di cavare la migliore offerta da ambo le parti, o stava cercando il miglior offerente. In ogni caso, non è mai stato “l’uomo di Mosca”, e la sua caduta è senza dubbio dovuta in gran parte al suo ruolo nel contrapporre le due parti a suo vantaggio. Il suo era un gioco pericoloso nel mettere in concorrenza le maggiori potenze.

Si può affermare con certezza che ciò di cui c’era bisogno era qualcosa che finora sembra mancare totalmente in Ucraina: una leadership che riconosce la natura divisa del paese e lavora diplomaticamente per trovare una soluzione che soddisfi sia le popolazioni locali e i loro legami storici con l’Occidente cattolico e con la Russia. In definitiva, l’Ucraina potrebbe essere un ponte tra Oriente e Occidente – e questa, per inciso, è stata proprio la posizione russa. La posizione russa non è stata di dividere l’Ucraina, tanto meno di conquistarla, ma di facilitare il ruolo del paese come ponte. Ciò comporterebbe un certo grado di federalismo, di governo locale, che finora è totalmente assente nel paese, con i governatori locali scelti non per elezione, ma dal governo centrale di Kiev. Una Ucraina federale potrebbe sviluppare relazioni sia con l’UE e mantenere i suoi vitali (e redditizi) rapporti economici con la Russia.

Ma questa intesa richiede la buona volontà occidentale a cooperare con la Russia. Gli Stati Uniti hanno chiaramente posto il veto a questa possibilità, preferendo sfruttare la crisi per bollare la Russia come “il nemico”.

Piano A e Piano B

La politica Usa, evidente già nella riunione del settembre 2013 a Yalta, è stata condotta sul campo da Victoria Nuland, ex consigliere di Dick Cheney, vice-ambasciatore presso la NATO, portavoce di Hillary Clinton, moglie del teorico neocon Robert Kagan. Il suo ruolo di primo piano nelle vicende ucraine dimostra che l’influenza neo-con nel Dipartimento di Stato, stabilita sotto Bush II, è stata mantenuta da Obama, il cui unico contributo visibile al cambiamento in politica estera è stata la presenza di un uomo di origine africana alla presidenza, calcolato per impressionare il mondo con la virtù multiculturale degli Usa. Come la maggior parte degli altri recenti presidenti, Obama è lì come un temporaneo venditore di politiche realizzate ed eseguite da altri.

Come Victoria Nuland vantava a Washington, dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991, gli Stati Uniti hanno speso cinque miliardi di dollari per guadagnare influenza politica in Ucraina (la chiamano “promozione della democrazia”). Questo investimento non è “per il petrolio”, o per qualsiasi vantaggio economico immediato. I motivi principali sono geopolitici, perché l’Ucraina è il tallone d’Achille della Russia, il territorio con la maggiore capacità potenziale di causare problemi alla Russia.

Ciò che ha richiamato l’attenzione del pubblico sul ruolo di Victoria Nuland nella crisi ucraina è stato il suo uso di una parolaccia, quando ha detto all’ambasciatore Usa, “che si fotta l’Unione Europea”. Ma il polverone sul suo linguaggio scurrile ha fatto velo alle sue cattive intenzioni. La questione verteva su chi dovesse strappare il potere al presidente eletto Viktor Yanukovich. Con il partito del cancelliere tedesco Angela Merkel che promuoveva l’ex pugile Vitaly Klitschko come suo candidato. Lo sgarbato rifiuto della Nuland significava che gli Stati Uniti, non la Germania o l’Unione europea, dovevano scegliere il prossimo leader, e che non era Klitschko, ma “Yats”. Ed infatti è stato Yats, Arseniy Yatsenyuk, un tecnocrate di secondo piano sponsorizzato dagli Usa noto per il suo entusiasmo per le politiche di austerità del FMI e l’adesione alla NATO, che ha ottenuto il posto. Questo ha messo in piedi un governo sponsorizzato dagli Usa, spalleggiato nelle strade da una milizia fascista con poco peso elettorale ma un sacco di bestialità armata, nella condizione di gestire le elezioni del 25 maggio, da cui l’occidente russofono era in gran parte escluso.

Il piano A per il colpo di stato di Victoria Nuland era probabilmente di installare, rapidamente, un governo a Kiev che avrebbe aderito alla NATO, preparando così formalmente il terreno agli Stati Uniti per impossessarsi della base navale russa sul Mar Nero di Sebastopoli in Crimea, indispensabile per la Russia. La reintegrazione della Crimea nella Russia era la necessaria mossa difensiva di Putin per evitare ciò.

Ma la mossa Nuland era in realtà uno schema che prevedeva la vittoria in ogni caso. Se la Russia non fosse riuscita a difendersi, rischiava di perdere l’intera sua flotta meridionale – un disastro nazionale totale. Se, d’altra parte, la Russia avesse reagito, come era più probabile, gli Usa avrebbero avuto in tal modo una vittoria politica il che era forse il loro obiettivo principale. La mossa totalmente difensiva di Putin è presentata dai principali mezzi di informazione occidentali, a cui fanno eco i leader politici, come un ingiustificato “espansionismo russo”, che la macchina della propaganda paragona a Hitler che invade la Cecoslovacchia e la Polonia.

Così una sfacciata provocazione occidentale, utilizzando la confusione politica ucraina contro una Russia sostanzialmente difensiva, è riuscita sorprendentemente a produrre un cambiamento totale nello Zeitgeist artificiale prodotto dai mass media occidentali. Improvvisamente, ci viene detto che “l’Occidente amante della libertà” si trova di fronte alla minaccia del “aggressivo espansionismo russo”. Una quarantina di anni fa, i leader sovietici si illusero che questa loro pacifica rinuncia avrebbe potuto portare ad una collaborazione amichevole con l’Occidente, e in particolare con gli Stati Uniti. Ma quelli negli Stati Uniti che non hanno mai voluto porre fine alla guerra fredda si stanno prendendo la rivincita. Non importa il “comunismo”; se, invece di propugnare la dittatura del proletariato, l’attuale leader della Russia è per certi versi semplicemente vecchio stile, i mezzi d’informazione occidentali possono tirarne fuori un mostro. Gli Stati Uniti hanno bisogno di un nemico da cui salvare il mondo.

Il ritorno del racket della protezione

Ma prima di tutto, gli Stati Uniti hanno bisogno della Russia come un nemico, allo scopo di “salvare l’Europa”, che è un altro modo per dire, continuare a dominare l’Europa. I decisori politici di Washington sembravano preoccupati che lo slancio di Obama verso l’Asia e il disinteresse per l’Europa potesse indebolire il controllo Usa sui suoi alleati della NATO. Il 25 maggio le elezioni al Parlamento europeo hanno rivelato una grande disaffezione verso l’Unione Europea. Questa disaffezione, in particolare in Francia, è legata ad una crescente consapevolezza che l’UE, lungi dall’essere una potenziale alternativa agli Stati Uniti, è in realtà un meccanismo che incatena i paesi europei alla globalizzazione definita dagli Usa, al declino economico e alla politica estera degli Stati Uniti, alle guerre e a tutto il resto.

L’Ucraina non è l’unica entità che è stata sottoposta ad una tensione eccessiva. Così è stato per l’UE. Con 28 membri diversi per lingua, cultura, storia e mentalità, l’UE non è in grado di accordarsi su nessun’altra politica estera che non sia quella imposta da Washington. L’ampliamento dell’UE agli ex satelliti dell’Europa orientale ha completamente infranto qualsiasi profondo consenso che avrebbe potuto esserci tra i paesi della Comunità Economica originale: Francia, Germania, Italia e Benelux. La Polonia e gli Stati baltici vedono l’adesione all’UE come utile, ma i loro cuori sono in America – dove molti dei loro leader più influenti sono stati istruiti e formati. Washington è in grado di sfruttare la nostalgia anti-comunista, anti-russa e persino filo-nazista dell’Europa nord-orientale per agitare il falso grido che “i russi stanno arrivando!” al fine di ostacolare il crescente partenariato economico tra la vecchia UE, in particolare la Germania, e la Russia.

La Russia non è una minaccia.Ma per i rumorosi russofobi negli Stati baltici, nell’Ucraina occidentale e nella Polonia, l’esistenza stessa della Russia è una minaccia. Incoraggiata dagli Stati Uniti e dalla NATO, questa endemica ostilità è la base politica per la nuova “cortina di ferro” intesa a conseguire l’obiettivo enunciato nel 1997 da Zbigniew Brzezinski in La Grande Scacchiera: mantenere il continente eurasiatico diviso per perpetuare l’egemonia mondiale degli Stati Uniti. La vecchia guerra fredda serviva allo scopo, consolidando la presenza militare degli Usa e l’influenza politica nell’Europa occidentale. Una nuova guerra fredda può evitare che l’influenza Usa sia vanificata da buone relazioni tra l’Europa occidentale e la Russia.

Obama è arrivato in Europa ostentatamente promettendo di “proteggere” l’Europa basando più truppe in regioni il più possibile vicine alla Russia, e ordinando al tempo stesso alla Russia di ritirare le proprie truppe, sul proprio territorio, ancora più lontano dalla travagliata Ucraina. Questo sembra pensato per umiliare Putin e privarlo del sostegno politico interno, in un momento in cui stanno crescendo le proteste in Ucraina orientale contro il leader russo perché li abbandona ai killer inviati da Kiev.

Per stringere la morsa Usa sull’Europa, gli Stati Uniti stanno usando la crisi artificiale per esigere che i suoi alleati indebitati spendano di più nella “difesa”, in particolare nell’acquisto di sistemi d’arma Usa. Sebbene gli Usa siano ancora ben lontani dall’essere in grado di soddisfare le esigenze energetiche dell’Europa dal nuovo boom Usa del fracking, questa prospettiva viene salutata come un sostituto alla vendita di gas naturale della Russia – stigmatizzato come “un modo di esercitare pressione politica”, qualcosa di cui le ipotetiche vendite energetiche Usa si presume siano esenti. Vengono fatte pressioni sulla Bulgaria e anche sulla Serbia per bloccare la costruzione del gasdotto South Stream, che porterebbe il gas russo nei Balcani e nell’Europa meridionale.

Dal D-Day al Dooms Day

Oggi, 6 giugno, il settantesimo anniversario dello sbarco del D-Day viene rappresentata in Normandia come una gigantesca celebrazione della dominazione americana, con Obama alla testa di un cast stellare di leader europei. Gli ultimi anziani soldati e aviatori sopravvissuti sono presenti come i fantasmi di un’epoca più innocente, quando gli Stati Uniti erano solo all’inizio della loro nuova carriera di padroni del mondo. Essi erano reali, ma il resto è una farsa. La televisione francese è inondata dalle lacrime dei giovani abitanti dei villaggi in Normandia a cui è stato insegnato che gli Stati Uniti sono una specie di angelo custode, che ha inviato i suoi ragazzi a morire sulle coste della Normandia per puro amore per la Francia. Questa immagine idealizzata del passato è implicitamente proiettata sul futuro. In settant’anni, la guerra fredda, una narrazione dominante propagandistica e soprattutto Hollywood hanno convinto i francesi, e la maggior parte dell’Occidente, che il D-Day è stato il punto di svolta per la vittoria nella seconda guerra mondiale e che ha salvato l’Europa dalla Germania nazista.

Vladimir Putin è venuto alla celebrazione, ed è stato accuratamente evitato da Obama, auto-nominatosi arbitro della Virtù. I russi stanno rendendo omaggio all’operazione D-Day che liberò la Francia dall’occupazione nazista, ma essi – e gli storici – sanno ciò che la maggior parte dell’Occidente ha dimenticato: che la Wehrmacht fu sconfitta concretamente non dallo sbarco in Normandia, ma dall’Armata Rossa. Se il grosso delle forze tedesche non fosse stato inchiodato a combattere una guerra persa sul fronte orientale, nessuno celebrerebbe il D-Day come lo si celebra oggi.

Putin è ampiamente accreditato come “il miglior giocatore di scacchi”, che ha vinto il primo round della crisi ucraina. Egli ha senza dubbio fatto il meglio che ha potuto, di fronte alla crisi impostagli. Ma gli Usa hanno schiere intere di pedine che Putin non ha. E questo non è solo un gioco di scacchi, ma di scacchi combinati con il poker e con la roulette russa. Gli Stati Uniti sono pronti ad assumersi rischi che i più prudenti leader russi preferiscono evitare… il più a lungo possibile.

Forse l’aspetto più straordinario della farsa attuale è il servilismo dei “vecchi” europei. A quanto pare abbandonando tutta la saggezza accumulata dall’Europa, tratta dalle sue guerre e dalle sue tragedie, e persino inconsapevoli dei propri interessi, gli attuali leader europei sembrano pronti a seguire i loro protettori americani verso un altro D-Day … dove D sta per Doom [Doomsday: fine del mondo o, in generale, evento catastrofico, ndt] .

Può la presenza in Normandia di un leader russo in cerca di pace fare la differenza? Basterebbe che i mezzi d’informazione di massa dicessero la verità, e quanto all’Europa che producesse dei leader abbastanza saggi e coraggiosi, perché l’intera macchina da guerra finta perda la sua lucentezza, e perché emerga la verità. Un’Europa pacifica è ancora possibile, ma per quanto tempo?