Fiat addio, inglobata dal capitalismo mondiale. Sarà per questo che i portavoce di banche e poteri finanziari esultano, come si evince dalle prime pagine dei quotidiani economici italiani e stranieri. Si chiamerà “Fca”: Fiat Chrysler Automobiles il gruppo nato dalla fusione dell’azienda torinese e di quella di Detroit. E per pagare meno tasse e non sottostare all’oppressione dell’eurozona, avrà sede legale in Olanda, fiscale in Gran Bretagna e sarà quotata a Wall Street e Milano.
Per il principe ereditario di Gianni Agnelli, John Elkann, presidente di Fiat, “La nascita di Fiat Chrysler Automobiles segna l’inizio di un nuovo capitolo della nostra storia. Il viaggio che è iniziato più di dieci anni fa è culminato nell’unione di due organizzazioni, ognuna con una grande storia nel panorama automobilistico ma con caratteristiche e punti di forza geografici differenti e complementari. FCA ci permette di affrontare il futuro con rinnovata motivazione ed energia”. Esulta ovviamente il grande registra Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat e presidente e amministratore delegato di Chrysler Group: “Oggi è una delle giornate più importanti della mia carriera in Fiat e Chrysler. Abbiamo lavorato caparbiamente e senza sosta a questo progetto per trasformare le differenze in punti di forza e per abbattere gli steccati nazionalistici e culturali”.
L’Italia di governo e di lotta applaude, con qualche lievissimo dubbio sui destini dei lavoratori italiani sollevato dopo settimane di voci e conferme solo dalla leader della Cgil, Camusso. Gli altri sindacati si accodano alla claque, mentre a Pomigliano tra poche settimane e a Termini Imerese, a giugno, scadono le casse integrazioni degli operai Fiat.
Dopo tanti denari elargiti, insomma, a noi parrebbe il minimo che, almeno a livello sindacale, doveva essere chiarito il destino sui futuri livelli occupazionali del Paese e le ripercussioni, fiscali e salariali che si avranno a seguito dei trasferimenti all’estero della sede sia legale che fiscale della casa automobilistica torinese. Ma Letta e company, dopo aver ricevuto ieri Marchionne, non hanno ritenuto opportuno rilasciare dichiarazioni su questo.
Eppure, almeno dal 1975, gli stipendi degli operai italiani non sono stati pagati dalla Fiat ma dallo Stato italiano, ovvero da tutti noi. Cornuti e mazziati, dunque, con grande gioia degli eredi Agnelli, ieri immortalati a esultare con Marchionne ma non a dire un grazie al Paese che li ha mantenuti per decenni.
Si perché Fiat, in questi anni, è solo il nome che l'Italia ha dato all'assistenzialismo di Stato: si tratta, secondo dati elaborati dalla Uilm, di 200mila miliardi di soldi pubblici, che ne fanno l’azienda più assistita di sempre. 200mila miliardi, secondo il calcolo Uilm che includono le più variegate voci: dai contributi statali alle rottamazioni prodiane, dalla cassa integrazione per i dipendenti ai prepensionamenti, e ancora dalla mobilità lunga agli stabilimenti costruiti con i soldi pubblici (come quello di Melfi) o, di fatto, regalati dallo Stato (l’Alfa Romeo di Arese). Senza contare, in questi 200mila miliardi, delle “protezioni” del mercato dalla concorrenza straniera, o delle eccezionali agevolazioni fiscali, o ancora delle politiche di lungo corso sulla mobilità in Italia.
Il periodo nel quale è stata spalmata l’ingente cifra arriva ad oggi ma inizia nel lontano 1975, anno in cui la creatura degli Agnelli faceva registrare altri, più gloriosi record. Ad esempio lo stabilimento Mirafiori di Torino, con i suoi 50 mila operai, era allora il più grande del mondo e sfornava auto che avrebbero riempito le strade della Penisola (una su tutte, la “127”).
Dunque, secondo questi ingenti investimenti statali, oggi la Fiat avrebbe dovuto essere leader del mercato automobilistico mondiale, non emigrare altrove, spostare altrove la sua sede fiscale, la sua forza lavoro, i suoi investimenti.
Un computo del totale dei finanziamenti statali alla Fiat è stato fatto anche dalla Cgia di Mestre che ha condotto uno studio per il periodo dal 1977 al 2009, arrivando al totale di 7,6 miliardi di euro. Negli anni Ottanta, quando il mercato automobilistico globale attraversò un periodo di ristrutturazione, l’azienda di Torino prese 5,1 mld di euro dallo Stato Italiano. Nel decennio successivo fu la volta di investimenti e ristrutturazioni: 1,279 miliardi di euro per gli impianti di Melfi e Pratola Serra e 272,7 milioni di euro per la ristrutturazione degli impianti di Melfi e Foggia tra il 1997 e il 2003.
Il capitolo “incentivi alla rottamazione” vede un totale di 465 milioni di euro versati dallo Stato, a cui si aggiungono 1,15 mld di euro per gli ammortizzatori sociali nel periodo tra il 1991 e il 2002, voce questa che è stata sostenuta anche dalla Fiat e dai suoi lavoratori. In nome dell’italianità, Fiat è stata per oltre 70 anni l’unico fornitore di automezzi alla Pubblica Amministrazione, godendo di un vantaggio unico.
Addirittura i progetti di ricerca e sviluppo della Fiat sono finiti nel Piano Operativo Nazionale (Pon) “Ricerca e competitività” mediante fondi in parte europei, in parte nazionali, Nel maggio 2011 sono arrivati oltre 50 milioni di euro da parte del Cipe per tre società del Lingotto: 22,5 milioni alla Fiat Powertrain di Verrone (Biella), 18,7 all’Iveco di Foggia e 11,2 milioni alla Sevel di Chieti.
Ci sono poi le vendite o “svendite” che hanno visto Fiat acquisire nel 1986 lo storico marchio Alfa Romeo, detenuto dall’IRI, dopo una lunga battaglia con Ford, unito nello stesso anno nell’Alfa-Lancia Industriale, dopo la chiusura di Lancia, già acquisita dal Lingotto: la riorganizzazione del gruppo ha poi portato alle divisioni dei due marchi all’interno del gruppo Fiat Group Automobiles.
Di italiano alla Fiat oggi invece non resterà manco il nome: a Londra, dove sarà la sede fiscale, il gruppo potrà pagare meno tasse sui dividendi, a causa di un sistema defiscalizzato. La nuova quotazione in Borsa a Wall Street porterà ricchezza al listino statunitense, a discapito di quello italiano. Il cambio di sede, lo ha ammesso candidamente Marchionne, e la trasformazione in una multinazionale che guarda più agli Usa che all’Italia, decreterà la nascita di posti di lavoro in altre nazioni dove la Fiat è stata delocalizzata in questi anni, vedi Polonia, Serbia, Russia, Brasile, Argentina, a discapito degli operai degli stabilimenti italiani. La nuova sede legale, in Olanda, ad Amsterdam, porterà un grande vantaggio per gli azionisti di maggioranza che avrebbero azioni con maggior valore in sede di assemblea, ma non certo all’Italia.
Del resto tutto questo non lo si scopre oggi e nulla è stato fatto per salvare almeno i livelli occupazionali italiani: due anni fa su Repubblica Federico Fubini spiegava che l’azienda di Torino versava meno contributi rispetto ai soldi erogati a suo favore per finanziare la cassa integrazione ai suoi lavoratori in mobilità. Nel 2012, sottolineava Fubini, c’era uno squilibrio di 1,6 miliardi nei conti di Inps per quanto riguarda la Cig: un buco saldato – manco a dirlo - dai soldi dei contribuenti. L’articolo de “La Repubblica” sottolineava infatti come questi soldi servissero sostanzialmente a finanziare la strategia di espansione all’estero del gruppo. Anche quello abbiamo pagato noi, insomma.
Se c’è da festeggiare, dunque, non è certo per il successo della Fiat, ma perché l’Italia si è liberata di uno dei più immondi baracconi industriali della sua storia, confermando ancora una volta – se ce ne fosse bisogno – l’assoluta inesistenza di una vera politica industriale, per cui oggi paghiamo ancora una volta le conseguenze di questo vulnus. Del resto la più importante fabbrica italiana che va via non è altro che lo specchio di questo Paese che non ci sta.
Lucilla Parlato, da Parallelo41