La legge ferrea dell'oligarchia, formulata nel 1911 dal politologo tedesco Robert Michels nel suo libro Sociologia del partito politico, teorizza che tutti i partiti politici si evolvano da una struttura democratica aperta alla base, in una struttura dominata da una oligarchia, ovvero da un numero ristretto di dirigenti. Questo deriva dalla necessità di specializzazione, che fa sì che un partito si strutturi in modo burocratico, creando dei capi sempre più svincolati dal controllo dei militanti di base. Con il tempo, chi occupa cariche dirigenti si "imborghesisce", allontanandosi dalla base e diventando un'élite compatta dotata di spirito di corpo. Nello stesso tempo, il partito tende a moderare i propri obiettivi: l'obiettivo fondamentale diventa la sopravvivenza dell'organizzazione, e non la realizzazione del suo programma. [1]
Michels, che elabora le sue tesi principalmente grazie all'osservazione del Partito Socialdemocratico Tedesco, fornisce quattro prove a sostegno della sua tesi:
1) La democrazia non è concepibile senza una qualche organizzazione.
2) L'organizzazione genera una solida struttura di potere che finisce per dividere qualsiasi partito o sindacato in una minoranza che ha il compito di dirigere e una maggioranza diretta dalla prima.
3) Lo sviluppo di un'organizzazione produce burocratizzazione e centralizzazione, che creano una leadership stabile, che col tempo si trasforma in una casta chiusa e inamovibile.
4) L'insorgenza dell'oligarchia deriva anche da fattori psicologici, in particolare la "naturale sete di potere" di chi fa politica e il "bisogno" delle persone di essere comandate. [2]
Questo approccio è stato criticato, in tempi più recenti, da Angelo Panebianco, che ha osservato che l'evoluzione dei partiti è più complessa e contraddittoria di quanto ipotizzato da Michels. Panebianco evidenzia come la base di un partito non abbia un ruolo del tutto passivo, in quanto anch'essa (e non solo i leaders) possiede risorse. Inoltre, le ideologie non sono del tutto manipolabili: quindi, gli obiettivi di un partito possono essere articolati e adattati alle mutate esigenze, ma non abbandonati del tutto
Michels, che elabora le sue tesi principalmente grazie all'osservazione del Partito Socialdemocratico Tedesco, fornisce quattro prove a sostegno della sua tesi:
1) La democrazia non è concepibile senza una qualche organizzazione.
2) L'organizzazione genera una solida struttura di potere che finisce per dividere qualsiasi partito o sindacato in una minoranza che ha il compito di dirigere e una maggioranza diretta dalla prima.
3) Lo sviluppo di un'organizzazione produce burocratizzazione e centralizzazione, che creano una leadership stabile, che col tempo si trasforma in una casta chiusa e inamovibile.
4) L'insorgenza dell'oligarchia deriva anche da fattori psicologici, in particolare la "naturale sete di potere" di chi fa politica e il "bisogno" delle persone di essere comandate. [2]
Questo approccio è stato criticato, in tempi più recenti, da Angelo Panebianco, che ha osservato che l'evoluzione dei partiti è più complessa e contraddittoria di quanto ipotizzato da Michels. Panebianco evidenzia come la base di un partito non abbia un ruolo del tutto passivo, in quanto anch'essa (e non solo i leaders) possiede risorse. Inoltre, le ideologie non sono del tutto manipolabili: quindi, gli obiettivi di un partito possono essere articolati e adattati alle mutate esigenze, ma non abbandonati del tutto
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