domenica 15 settembre 2013

Le rivolte libertarie in Brasile



Tutti noi abbiamo negli occhi le quotidiane manifestazioni di insofferenza e ribellione del popolo brasiliano duranto la Confederations Cup che si è disputata a giugno.
Oggi vi propongo un estratto di un articolo pubblicato nell'ultimo numero di Umanità Nova, scritto da un insegnante e militante brasiliano.
Il testo completo lo trovate cliccando sul link a piè di pagina.

Oltre a questa impressionante e sorprendente dimostrazione di forza che ha piegato l’autorità delle città brasiliane, un altro aspetto straordinario delle rivolte di giugno è stato la logica del senso. Le manifestazioni hanno ripreso un senso politico da tempo bandito dalla scena politica brasiliana: l’anarchismo. Bisognerebbe essere sciocco o disonesto per non ammettere che il modus operandi nelle manifestazioni hanno innescato una forte analogia con quella utilizzata storicamente dai movimenti anarchici. Lo stesso MPL (Movimento Passe Livre), gruppo responsabile per la convocazione delle manifestazioni, è un’organizzazione apartitica e orizzontale, adotta il principio della rotazione per evitare la cristallizzazione delle strutture di potere, e l’auto-gestione dei loro lavoro interni. Inoltre, cosa più importante, non ha capo, o leader o portavoce. Il MPL respinge pertanto il principio della rappresentanza politica e rifiuta quindi il gioco della democrazia liberale che, contrariamente a quel che si crede, non è né fu l’unica forma possibile di democrazia nella storia. Piaccia o no, il fatto è che nella storia delle società moderne è proprio questa posizione politica che è adottata dal movimento anarchico internazionale sin dal XIX secolo.

Non pochi analisti si sono riferiti al movimento francese del maggio 1968 per tracciare un parallelo che permettesse di rendere intelligibili le rivolte brasiliane del giugno. Ma forse non è un buon esempio. Un sentimento che ha attraversato le manifestazioni in Brasile è stato la forte avversione per le istituzioni in generale. Non solo i partiti politiche, ma anche i sindacati e gruppi di sinistra con un forte grado di istituzionalizzazione come il MST, e pure il Consiglio dello Stato di San Paolo e Rio de Janeiro, la Prefettura della città São Paulo, il Banco Central, il Ministero degli Esteri di Brasilia. In giugno le rivolte sono state dirette contro le istituzioni. Bisogna avere in conto che le istituzioni sono responsabili per il collegamento dei singoli alla logica del potere: preso all’interno di un’istituzione il singolo si deve piegare alle regole della sua organizzazione ed è dominato dagli scopi della stessa, per conto dei quali le decisioni sono prese conformemente con l’ordine dello stato. Le istituzioni articolano l’esistenza del singolo con l’ordine del potere. Attaccare le istituzioni vuol dire attaccare lo stesso regime della legalità.
A quanto pare nei giorni del maggio 1968 il senso era diverso: il “il est interdit d’interdire” [è vietato vietare] non passava per il rifiuto delle istituzioni ma per il rifiuto del pattugliamento ideologico dei partiti e università. In una lucida analisi di quegli eventi Maurice Joyeux diceva che finita “la festa” gli attori principali sono stati recuperati dalle parti o assimilati in posizioni importanti. “Dopo aver gettato la sua rabbia contro la faccia del papa, del professore e della società, [...] sono stati riconvertiti con i partiti e le organizzazioni dello Stato su cui avevano vomitato”[1].

A questo proposito, le rivolte brasiliane di giugno sembra stabilire maggior grado di esteriorità rispetto allo Stato più che le giornate del maggio francese, cosa che ci porterebbe di suggerire un’altra analogia nella storia. Nella storia delle lotte sociali in Brasile c’è un evento che potrebbe fungere da punto di intelligibilità: sono le “giornate di luglio” di 1917 a San Paolo. Lo sciopero generale anarchico che mobilitò 100.000 persone nella capitale è stato causato dal costo della vita e aggravato dalla violenza e stupidità della polizia e del governo: la parola d’ordine degli scioperanti era fermare la città e quella del governo era reprimere. Contro la brutalità della polizia e del governo gli operai eressero barricate, distruggono fabbriche, saccheggiarono magazzini, vandalizzarono l’illuminazione pubblica, depredarono il tram. Il governo tentò, senza successo, di assegnare la violenza degli scioperanti ad una minoranza di anarchici. Tuttavia, era chiaro che la rivolta della folla non era stata guidata da una grande utopia, ma dal senso dell’intollerabile che risultava dalla miseria economica combinata con l’autoritarismo del governo. Dopo una settimana di conflitto aperto, la repulsione degli scioperanti alla legalità era tale che si rifiutano di negoziare con il governo e i padroni. È stato grazia all’intermediazione di una commissione di giornalisti che fu possibile l’accordo che mise fine allo sciopero[2].
Lo stesso si può dire per le rivolte di giugno: de semplice atto di protesta contro l’aumento dei trasporti pubblici presto la brutalità e la stupidità di governo hanno trasformato la situazione in un modo intollerabile per i manifestanti, cosa che ha fatto sospendere l’efficacia della legittimità dell’ordine delle leggi. Ed è la sospensione della legalità che, a mio avviso, costituisce l’elemento originale e decisamente l’anarchico di questo evento. A questo riguardo, il guadagno economico è irrilevante, in quanto è sempre preferibile alcuna riduzione strappata con la forza, anche R $ 0,01 cent, che l’azzeramento delle tariffe sotto forma di concessione del governo. Solo la riduzione strappata con la forza o con la paura della forza è in grado di produrre una trasformazione etico-politica: libertà e giustizia sono acquisite solo combattendo contro l’oppressione e l’ingiustizia. Chi non paga il trasporto per concessione governativa obbedisce un ordine del governo, invece chi paga di meno a causa di una riduzione strappata con la forza sta godendo di un diritto conquistato. E in tutta la storia politica delle nostre società l’unica garanzia contro l’arbitrario del governo è sempre stata la ferma consapevolezza dei governati circa i diritti conquistato.
Lo slogan “R $ 3,20 è un furto!” era sufficiente. E ‘stato sufficiente per mostrare quanto sia fragile l’autorità dello Stato quando incontra faccia a faccia l’indisciplina e la messa in discussione della gerarchia: occupare le strade e fermare la città contro la regolamentazione del movimento e l’immobilità del laissez-passer ha colpito la logica statale. É lo stato che controlla e produce il movimento, ispeziona le strade e disciplina le vie. La sua mobilità è confinamento: definisce percorsi, punti fissi da seguire, limita la velocità, determina le direzioni, distribuisce uomini e cose in uno spazio chiuso e territorializzati, stanziala individui. Pertanto, è fondamentale per lo Stato vincere il nomadismo. La pratica nomadica rompe la mobilità disciplinata producendo un uso dinamico dello spazio al di fuori dello Stato. Liberando gli spazi, il nomadismo diventa un atto fondamentalmente trasgressore, una macchina da guerra contro l’apparato statale[3]. I disordini del giugno sono stati in grado di produrre molti nomadismi.
Da quanto sopra, abbiamo ancora bisogno di affrontare due punti:
1) la violenza: bisogna rifiutare il moralismo liberale e ammettere che non solo la democrazia, ma anche la lettera della legge sono forme di dominio politico oggettivato, e che il cosiddetto stato di diritto appena non supporta la violenza che fonda un senso opposto alla sua dominazione. Violento è sempre lo Stato: l’aumento dei costi dei biglietti è una violenza, è pure violenza il progetto di legge brasiliano della “cura gay”, che considera l’omosessualità una malattia, e lo statuto del nascituro, che vieta l’aborto. Protestare contro di loro è autodifesa.
2) senza partiti: è fuorviante chi vede libertà di espressione sotto la bandiera dei partiti politici. Sono soldati che obbediscono a parole d’ordine. Partiti e istituzioni o sono strutture oligarchiche o devono diventarlo si vogliono stabilirsi nel potere. Non c’è esempio nella storia a dire il contrario. E non c’è più grande stupidaggine di dire, come ha fatto il presidente del PT di SP, che la negazione e l’esclusione dei partiti porta a manifestazioni autoritarie. Nessuno degli stati totalitari conosciuti nella storia furono apartitici: erano “iperpartitici” nel senso di volere il partito unico in forma di “superpartito” (PNF italiano, NSDAP tedesco, PCUS sovietico, ARENA brasiliano). Al contrario, quando le manifestanti hanno respinto i partiti, hanno mostrato che non volevano essere confuse con loro, hanno dimostrato di essere consapevoli della loro dignità e del valore proprio; hanno espresso la loro singolarità e la loro capacità politica particolare[4].
Come sarebbe possibile difendere le energie liberatrici che sono state innescate dalle grandi dimostrazioni di giugno? Come garantire che queste energie sfuggano ai processi di sedentarizzazione e d’immobilizzazione dei partiti, sindacati, istituzioni e dello Stato? Rischiando una risposta, direi che per continuare a nomadizzare gli spazi, i ribelli di giugno dovrebbero imparare a fare due cose: da un lato, dovrebbero imparare a fermarsi senza perdere velocità, vale a dire, trasformare il movimento in intensità in modo che alla sua prossima riapparizione sia ancora una volta possente e turbinante. E, d’altra parte, dovrebbe saper continuare le loro lotte senza incorrere nelle strutture oligarchiche e burocratiche dei partiti politici e delle istituzioni statali. In altre parole, dovrebbe rimanere come gli “esseri imprevedibili” di cui parla Nietzsche: quelli che “vengono come il destino, senza causa, ragione, considerazione, pretesto, sorgono come il lampo, in modo troppo terribile, improvviso, ugualmente costringendo ed ugualmente “differente” persino per essere odiato...”[5].
Nildo Avelino*

*Nildo Avelino insegna Scienze Politiche all’Università dello Stato della Paraíba (Brasile) e è militante del Centro de Cultura Social de São Paulo.

Tratto da Umanità Nova

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