sabato 15 marzo 2014

Così il Sud mantiene il nord



Vi sottopongo un articolo di qualche tempo fa, che dimostra inequivocabilmente quanto le boutade leghiste sul nord che mantiene il Sud siano semplici e gravissime menzogne. Il sito da cui è tratto l'articolo è Linkiesta, che non è un portale neoborbonico... eppure spiega, numeri alla mano, come in realtà sia il Sud a mantenere il nord e a pagare il prezzo più alto di questa sedicente Italia unita.
Buona lettura, si fa per dire...

Almeno il 75% delle entrate fiscali raccolte sul territorio deve restare in casa nostra, tuona Roberto Maroni a poche settimane dal voto, indicando ai nuovi vecchi alleati del centrodestra e agli avversari politici la linea del Piave leghista. L’altro giorno il Corriere della Sera ha fatto una simulazione calcolando che il sogno del Carroccio, se applicato alla lettera, farebbe lievitare le risorse disponibili per i soli cittadini lombardo-veneti di circa 19 miliardi (16 in Lombardia e 3 in Veneto).«A quel punto potremmo abolire l’Irap, fare investimenti e aiutare le nostre imprese e le nostre famiglie», si sfrega le mani il segretario del Carroccio. Secondo gli esperti interpellati dal Corriere si tratta di una rivendicazione irrealizzabile, al massimo si potrebbe fare per l’Imu: «In questo caso viene tassato un bene che appartiene davvero a quel paese o città» mentre un’azienda milanese o vicentina ha entrate che nascono in tutta Italia.«Passeremmo dal federalismo direttamente alla secessione», attaccano dall’opposizione, prendendo per buono il nuovo mantra leghista.
In realtà la proposta, anche se irrealizzabile, è politicamente interessante perché rilancia una convinzione di fondo che circola sopra il Po ben oltre il perimetro del consenso leghista, fino a farsi senso comune: il cosiddetto paradigma dei«territori separati» alla cui base c’è un dogma. La Padania paga, il resto del paese scialacqua. C’è un settentrione che funziona (è solo in difficoltà congiunturale) e un Mezzogiorno buco nero. L’Italia in sostanza è un Paese duale, un po’ Germania e un po’ Grecia, in cui il Sud incarna la panacea di tutti i mali del Nord. Quindi se la Padania non si libera velocemente della palla al piede, rischia di sprofondare pure lei.
Politicamente la traduzione è immediata: se a fine anni Novanta il Carroccio non c’è riuscito con la secessione, e nei Duemila con la devolution e il federalismo, adesso ci si riprova con il diritto a trattenere una grossa quota dei propri soldi sul territorio. Tassativo.
Se però guardiamo l’evoluzione del modello di sviluppo italiano la vicenda è molto più sfaccettata. Entrata in crisi l’industrializzazione forzata nei settori di base (petrolchimica, automotive, siderurgia) promossa con il sostegno finanziario dello stato (in 60 anni lo stato ha speso al sud 115 miliardi di euro in agevolazioni), e chiusa la Cassa per il Mezzogiorno nel 1992, nel meridione non ha neppure funzionato la stagione dei Patti per lo sviluppo, la strategia di far passare le risorse finanziarie direttamente attraverso le regioni su cui puntava Carlo Azeglio Ciampi e tutto il Dipartimento del Tesoro, allora guidato da Fabrizio Barca. In troppi casi la gestione delle politiche di programmazione negoziata ha risposto a logiche di appartenenza politica più che di sviluppo. Neppure ha dato grandi risultati il cosiddetto «modello adriatico» di piccola impresa tanto decantato dal Censis, alternativo all’industrializzazione dei grandi poli e all’assistenzialismo pubblico. Sembrava il naturale pendant meridionale dei distretti, invece...
Invece «venendo meno una strategia per lo sviluppo, la spesa pubblica ha assunto via via un peso crescente nell’economia del mezzogiorno, con una connotazione più marcatamente assistenziale», spiega Carlo Trigilia nel suo prezioso libretto Non c’è nord senza sud. Perchè la crescita dell’Italia si decide nel mezzogiorno (Il Mulino).
I dati impressionano. Negli ultimi vent’anni la spesa discrezionale, per sussidi e servizi, fatta 100 la quota a disposizione di un cittadino del nord, è schizzata a 106 per ogni abitante del sud; quella in conto capitale, per gli investimenti, fatta sempre 100 la quota girata al nord, al sud è crollata a 87. In contemporanea sono cresciute le spese per i consumi delle famiglie, sorta di sostegno al reddito (con soldi pubblici) andato ad alimentare, almeno fino alla grande crisi del 2008, i consumi di beni e servizi prodotti dalle Pmi distrettuali e dai sistemi di sviluppo locale, radicati nei territori manifatturieri dove la Lega nasce e fa proseliti. Quindi più risorse per consumi e clientele, meno per strade, scuole e infrastrutture. «Un ruolo del sud piuttosto marginale dal punto di vista produttivo, ma rilevante per la domanda di beni di consumo prodotti dalle imprese del centro-nord», riassume Trigilia.
Se guardiamo ai flussi di prodotti manifatturieri scambiati per macroaree italiane (Stime Svimez-Irpet), l’interdipendenza resta forte. La quota che dal Nord Ovest viene venduta al Sud è pari al 38%, dal Nord Est è pari al 31% e dal Centro al 29 per cento. «Le imprese padane scambiano col Meridione merci per un valore complessivo di 32 miliardi annui, in un mercato dove vivono e consumano 20 milioni di persone e la domanda di beni e servizi è più forte dell’offerta», spiegano i ricercatori dello Svimez. «La dipendenza del mercato economico meridionale da quello del Centro Nord resta molto forte nella subfornitura, ben oltre la quota dei trasferimenti pubblici». Le stesse aziende settentrionali completamente tecnologizzate e globali, che possono permettersi di«saltare» il Mezzogiorno, per Bankitalia sono una minoranza: 180mila su 4,5 milioni di imprese attive. E ancora. I circa 45 miliardi di euro annualmente trasferiti dal Centro-Nord al Sud, il cosiddetto residuo fiscale cuore del risentimento padano, «hanno finanziato importazioni nette di questa area pari a 62 miliardi dall’interno e a 13 miliardi dall’estero», ha calcolato l’economista Paolo Savona in un saggio pubblicato l’anno scorso dalla rivista Formiche.«In molte regioni le esportazioni interne hanno un peso elevato: in Lombardia hanno toccato nell’ultimo decennio il 52% del Pil annuale. Ma su questi dati - continua Savona - si assiste a una vera congiura del silenzio».
Un imbianchino scrive lo slogan “Prima il Nord”, scelto da Maroni, sul muro di Via Bellerio
Fino a metà degli anni Ottanta «questa strana miscela di dinamismo locale al nord e di disordine pubblico al sud ha tenuto senza troppe proteste». Il sistema salta con la crisi finanziaria e il peggioramento dei conti pubblici; il boom delle tasse, esplose per sfamare il debito pubblico; Tangentopoli e la fine della Prima repubblica; lo stop alle svalutazioni competitive, l’ingresso nella moneta unica e la globalizzazione. Nel momento in cui il modello avrebbe bisogno di un sostegno per crescere in produttività (cresciuta tra il 1990 e il 2010 solo del 15% contro il 38% della Germania e il 34% della Francia) e fare vere innovazioni di processo e prodotto per competere sulla qualità, il paese si avvita, zavorrato da servizi pubblici inefficienti, un centralismo scassato e costoso, un carico fiscale proibitivo e un gap infrastrutturale che aumenta esponenzialmente i costi per quei sistemi produttivi e di mercato più esposti alla competizione internazionale. Da qui il revanchismo del nord e la ri-esplosione del dualismo territoriale.
Ma la logica dei «territori separati» rischia di essere una lettura fallace.«Il Sud infatti cresce quando cresce il Nord. Le interrelazioni economiche sono così profonde da condizionare i risultati di ciascun territorio», conferma lo Svimez. Negli anni del miracolo economico i tassi di crescita del 4-5% al nord sono corrispondenti a quelli del meridione. Nei Novanta post svalutazione della lira, il boom del Nord Est si sposa agli anni migliori del mezzogiorno. Addirittura nel quinquennio ‘96-2000 il sud cresce più del nord. Poi la Padania va in letargo e, di conseguenza, il sud. L’ultimo decennio, insieme al brusco stop nel processo di convergenza Nord-Sud, mostra una perdita di competitività dell’intero settentrione. Se misuriamo il Pil per abitante il Nordovest nel 1998 vale il 140% della media dei paesi Ue, nel 2008, ultimo anno pre crisi, era sceso al 127%. Mentre il Nord Est passa da 137 a 125. La bassa crescita è dunque un fattore comune del paese, che precede la grande crisi mondiale. Non solo perchè il sud è una palla al piede ma anche per i problemi congeniti al modello padano: il nanismo d’impresa, la quasi scomparsa delle grandi aziende, il deficit infrastrutturale, la fine delle svalutazioni competitive e la difficile trasformazione terziaria della sua economia.
Quella dello sviluppo italiano è insomma una lettura diversa dal mainstream leghista che sta dietro a proposte come quella del 75 per cento. Tanto più che, chiosa Trigilia, «le ragioni del legame nord-sud non rispondono solo a pulsioni etico-politiche o alla solidarietà dovuta in ogni ambito nazionale bensì sempre più alle sfide che l’Italia deve affrontare per effetto dei processi di integrazione europea e della globalizzazione dell’economia». 

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