domenica 11 maggio 2014

Noi siamo stati, siamo e saremo sempre TEPPA.



Valerio Marchi (1955 - 2006) era un sociologo, uno studioso di società e comunità, specie giovanili. Anzi no, era un ultras romanista. Ma che dico, era uno skinhead: uno di quei "teppisti con la testa rasata", come sono soliti dire i benpensanti.
Valerio Marchi era tutto questo, e anche di più. In giorni in cui si parla, a vanvera e con malafede, di curve, e ultras, di Genny 'a carogna e del calcio moderno, di camorra e delinquenza, di violenza da stadio e non solo, la voce di Valerio Marchi manca sempre di più.
Proprio per questo sono felice che la Red Star Press abbia rieditato "Teppa. Storia del conflitto giovanile dal Rinascimento ai giorni nostri.", con una prefazione di Wu Ming 5, al secolo Riccardo Pedrini, storico esponente della scena skinhead bolognese e componente della Oi! band Nabat. 
Di seguito la prefazione di Wu MIng 5:

Non occorre che un’opera d’arte, un libro, un film o una musica siano “belli” per incarnare una temperie o per illuminare particolari in ombra nel gioco scenico dei vari presenti che si succedono e che per accumulo formano il passato e quindi la nozione ideologica che ne abbiamo, cioè la Storia. Così accade che un film autoindulgente e innocuo racconti un racconto del paese che significa in modo esemplare tutta l’impotenza apparente che pervade la nostra vita di italiani , qualsiasi cosa voglia dire, del 2014. Già. A dispetto del fastidio che si prova nel vederlo, bisogna ammettere che La Grande Bellezza dice bene molte cose.

Tipo: in una scena il protagonista, Gambardella, l’autore che dopo l’acclamato romanzo d’esordio non ha scritto più nulla, riduce al silenzio, in un salotto romano, un’autrice impegnata, che aveva svolto la sua carriera sotto l’egida del Partito. Un intellettuale organico, insomma. L’attacco di Gambardella è spietato. L’unico merito della donna è l’asservimento, tutto ciò che ha scritto non ha valore. Fa parte di un ceto di fastidiosi grilli parlanti che in realtà sono uguali, nella propensione al compromesso o alla vera e propria prostituzione, ai ceti, alle classi o agli individui sui quali, per mestiere, moraleggiano. Privilegiati, in malafede e rompicoglioni, quindi: in più, incapaci di godersi la vita, proni ai sensi di colpa. Il protagonista del film di Sorrentino sintetizza in modo esemplare quello che molti fabbricanti d’opinione, molti ideologi della borghesia pensano di una parte dell’intellettualità italiana, quella, per l’appunto, che una parte ce l’ha. Lo fa con estrema durezza, con ripugnante machismo, con il livore che si deve a una donna che “non sta al proprio posto”.

Il film ha vinto l’Oscar, capace come è di fornire una visione esotica, decadente e estetizzante, adatta a una fruizione compiaciuta, estatica, come quando si mangia molto formaggio, si beve molto vino e magari si fuma una canna subito dopo. Film adatto a un paese che da decenni tiene la testa dentro il buco del culo, e che anche in questo incarna una paradossale avanguardia mondiale. Il film del resto conferma uno stereotipo classico sull’Italia-Babilonia e non stupisce che il mondo anglosassone ne sia stato così compiaciuto.

È chiaro che quasi tutti quelli che fanno un uso pubblico della ragione, gli intellettuali del mondo reale, vivono vite lontanissime dallo stereotipo che il film di Sorrentino ci spaccia ancora una volta. Un ceto vastissimo che non per forza finisce sulle pagine dei quotidiani nazionali pronta a fornire un’illuminata, filosofica opinione sulla crisi ucraina, sulla crisi dell’Inter, sulle elezioni o su qualche tema etico, magari in compagnia di un prete o di uno sbirro.

Un esempio di uso pubblico, e critico, della ragione è la vita e l’opera di Valerio Marchi. Difficile pensare a un intellettuale più lontano dallo stereotipo disegnato dalle parole di Sorrentino/Gambardella. Chissà cosa avrebbe pensato e detto Valerio di un film simile.

Uno storico del conflitto. Un’intelligenza acuta, capace di muoversi sullo street level, sul piano dove il conflitto si esplica, si annoda, si scioglie e riannoda nel quotidiano, nelle vite di tutti e di tutte. Non è lecito aspettarsi che l’accademia riconosca la portata del suo lavoro, e in fondo non ha nemmeno molta importanza. Niente Oscar di nessun tipo, nessun riconoscimento ufficiale per libri come questo. A pensarci bene, è una fortuna Quello che conta davvero è che le parole di Valerio, le sue idee e la sua visione continuino a circolare, a essere fruite e rideclinate, che contribuiscano alla riflessione e perchè no alla formazione di quelli che di fronte alla pervasività del conflitto non si tirano indietro e sono pronti a giocare una parte dalla parte dei molti, cioè dalla parte giusta. Già, le cose diventano interessanti se Lenin, Gramsci, la scuola di Birmingham e Dick Hebdige escono dai corsi di storia o di sociologia o dalle sedi di minuscoli partitini e ci arrivano davvero, sullo street level, cioè sul piano dove avveniva negli ultimi anni la quasi totalità dell’azione intellettuale e politica di Valerio Marchi, intellettuale di strada. Tutto diventa interessante se libri come Teppa, che Red Star provvede opportunamente a ristampare, diventano piccoli breviari storici per sostenere la capacità di riflettere, analizzare, e quindi resistere e attaccare.

Figlio di un’altra temperie, Teppa ha ancora molto da dire al lettore contemporaneo, anche grazie alla cifra fruibile e apertamente narrativa. Merita nuovi lettori, dovrebbe essere consegnato a una generazione più giovane perché un filo rosso, quello della resistenza e della ribellione, non si perda, perché la bellezza dei corpi in rivolta non scompaia dalle nostre vite, inghiottita dal vaniloquio del potere, dalla voce meccanica dei suoi gadget mortiferi.

Negli anni in cui apparve, gli anni novanta del secolo scorso, si stava producendo un fenomeno interessante. Membri delle sottoculture stilistiche (dei culti, per dirla all’inglese) di cui parla il libro incominciavano a produrre discorso in prima persona. Le sottoculture, quella skinhead in particolare, giungevano hegelianamente all’autocoscienza. Con questo, da una parte, la purezza (preoccupazione in fondo borghese) era perduta, ma dall’altra si aprivano nuove possibilità, che gli anni successivi hanno cominciato ad esplorare. A metà anni novanta era possibile pensare in termini non meramente resistenziali. Appena dopo (il libro è del 1998) sarebbe esploso il movimento altermondialista.

Teppa, storie del conflitto giovanile dal Rinascimento ai giorni nostri, si presenta come una carrellata di stili, una narrazione di corpi che si assoggettano a disciplinamenti alternativi, alle volte in aperto antagonismo rispetto a quelli del potere, e che negli interstizi della legge erigono spazi di vivibilità simbolici e concreti, biotopi nei quali forme di vita alternative proliferano, si diffondono, si contraggono e si espandono, subiscono mutazioni, attraversano filiazioni e riscoperte. In realtà tutti gli stili sottoculturali di cui parla il libro, dai Merveilleux agli Zazous agli Skinhead fino, in maniera già autocosciente, al Punk, incarnano l’equilibrio precario che è la rappresentazione/risoluzione simbolica del conflitto. Che può sfociare, e spesso sfocia, in conflitto aperto, ma fondamentalmente risiede nel rapporto tra sé e identità individuale e sociale. Rapporto che è segnato dall’appartenenza di classe, se è vero come è vero che in una società divisa in classi ogni pensiero ha un’impronta di classe. Stili che conoscono pregnanze effimere, che dicono simbolicamente tutto il loro dicibile nel volgere di una stagione, ma che poi si radicano, diventano opzioni percorribili, significative per molte generazioni, che conoscono evoluzioni e storie che coprono interi decenni. Stili che, come ci si diceva in un’estate romana di molti anni fa, sono ancora capaci di incarnare una problematica, non compiacente bellezza all’interno della metropoli globale. Questo, in tempi di autoassolutorie, sedicenti Grandi Bellezze continua a essere un dato importante.
____________________________________

Nessun commento:

Posta un commento