di Tiziana Gulotta
Dal 1861 ad oggi, il Pil del Mezzogiorno è cresciuto di 18 volte ma anche il divario tra Nord e Sud è aumentato, in particolare durante i primi 100 anni.
Svantaggio che è stato in parte recuperato dalle regioni meridionali nella cosiddetta ‘stagione aurea’ del secondo dopoguerra. Ed ancora, se nel 1861, il Pil tra le due aree era simile, cioè pari a 100 per entrambi, dopo 150 anni, nel 2009, i redditi del Mezzogiorno risultavano pari solo al 59% del Centro-Nord.
E ancora: mentre il tasso di occupazione meridionale nel 1951 era pari all’81% del Centro-Nord, quasi 50 anni dopo, era fermo al 68,9%. La dinamica Nord–Sud, dall’Unità d’Italia ad oggi, è stata ricostruita dalla Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno nel volume intitolato 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud (1861-2011).
In un’intervista, il presidente della Svimez, Adriano Giannola, illustra com’è cambiato il quadro sociale ed economico del Paese in questo secolo e mezzo e spiega perché il Mezzogiorno oggi si pone come opportunità strategica per il sistema Italia.
Durante la cosiddetta ‘Età dell’Oro’, il Meridione mostra un’importante dinamicità nella performance economica.
Per la prima volta nella storia unitaria, il Mezzogiorno recupera almeno 20 punti del ritardo che aveva accumulato negli anni precedenti, a partire dagli inizi degli anni ’50 fino alla metà degli anni ‘70. Siamo nella fase dell’intervento dello Stato a supporto della realizzazione della riforma agraria e della politica di industrializzazione che, dal ‘57 in poi, viene sviluppata e che serve a tutto il Paese per costruire, sotto l’egida della politica regionale, un’industria di base fondamentale per il successo dell’industria manifatturiera del Centro-Nord.
In questo periodo si assiste ad una complementarietà tra la politica regionale che attiva l’economia del Mezzogiorno ed il successo dell’economia italiana che, grazie alla simbiosi tra Nord e Sud, permette il miracolo economico nazionale. Con un costo sociale rilevante dato dall’enorme migrazione interna.
Come si arriva alla crisi della crescita nelle due aree Nord-Sud?
Dagli anni ‘70 in poi, i vari shock petroliferi, valutari e salariali, hanno messo in grave crisi l’industria e si è registrata anche una carenza di soluzioni nelle politiche industriali. Il divario Nord-Sud è cresciuto fino ad oggi e si attesta sui 40 punti. Ma negli ultimi 20 anni, in particolare dal ‘98, abbiamo anche assistito ad una dinamica di crescita estremamente modesta sia al Nord che al Sud. Se andiamo ad osservare, infatti, l’industria manifatturiera, che è il cuore del sistema produttivo settentrionale, notiamo che ancor prima della crisi finanziaria mondiale del 2008, c’è una perdita di produzione. Non è così per la Germania che è cresciuta del 14% e per la Francia del 10%.
In un ‘sistema Italia’ che non cresce, ha ancora senso parlare di dualismo?
Il meccanismo dualistico esiste ancora, mantiene cioè il divario ma la tendenziale stagnazione strutturale è simile al Nord e al Sud. Da qui l’esigenza, come sostiene il Governatore della Banca d’Italia, della ripresa della crescita. Nell’opinione pubblica il Mezzogiorno è considerato il luogo dello spreco, la palla al piede del Paese. Liberarsene consentirebbe al Nord una grande ripresa. Questa sarebbe una grande illusione pericolosa e una tentazione di chi interpreta il federalismo fiscale come strumento per attuare una strategia di liberazione della parte ricca dalla parte che lo starebbe traendo a fondo. Senza rendersi conto, però, che la parte ricca è in crisi proprio come quella meno ricca.
Quale ruolo dovrebbe avere il federalismo fiscale?
Il federalismo fiscale può essere uno strumento utile di razionalizzazione e responsabilizzazione ma non può essere visto come una strategia che risolva i problemi. Un sistema del tutto legittimo in regime di unione monetaria potrebbe essere la tanta evocata e mai nata ‘fiscalità di vantaggio’ nelle regioni meridionali viste come sistema.
In realtà la causa del declino non è l’esistenza di un Mezzogiorno che frena il Nord ma la perdita di competitività del nostro sistema produttivo che deve essere indirizzato meglio. Scambiare le cause per gli effetti è molto pericoloso.
Il federalismo può essere un utile strumento ma visto come strategia di soluzione è una pericolosissima illusione.
In un mondo globalizzato, il Mezzogiorno con la sua rappresentazione mediterranea, potrebbe diventare la frontiera di un nuovo ciclo di sviluppo?
Non è semplice mantenere la competitività nel mondo globale alle condizioni attuali. Ma ci troviamo nel Mediterraneo, divenuto il centro dei traffici mondiali, in una posizione logistica privilegiata per intervenire e intercettare le opportunità create da questa fase di sviluppo del commercio mondiale.
Se non ci muoviamo presto lo faranno la Spagna, la Francia mediterranea ed il Nord Africa. Sull’area euro-mediterranea dobbiamo presentarci come i leader: dai trasporti alla ricerca e alla logistica, per intercettare Cina e India, in modo da consentire ai nostri porti, se bene attrezzati, di essere il luogo dell’interscambio. Dobbiamo anche riposizionarci nei settori tradizionali, come quello della produzione energetica.
In Basilicata, potremmo raggiungere il 20% del fabbisogno nazionale di petrolio e attorno ad esso sviluppare anche ricerca e salvaguardia dell’ambiente. In sostanza, occorre reinterpretare il terri-torio in un mondo che è cambiato. Da questo punto di vista il Mezzogiorno è una grande opportunità per l’Italia.
Quali saranno i nodi che il Mezzogiorno dovrà sciogliere negli anni futuri?
I nodi da sciogliere sono quelli della ‘governance’. Le regioni del Mezzogiorno e lo Stato centrale devono coordinare una strategia che abbia e si dimostri coerente ad un disegno di interesse nazionale. Dobbiamo ritrovare una strategia coerente che metta gli interessi dei singoli territori in un disegno più ampio, in una visione di lungo periodo.
Come frenare l’emigrazione di giovani dal Sud?
Sembra utopistico un significativo spazio per rilanciare in Italia il nucleare laddove abbiamo già delle potenzialità energetiche nel Mezzogiorno: la Basilicata rappresenta la ‘Mecca’ petrolifera; il Sud in generale quella delle fonti rinnovabili e sostenibili. Ed ancora, la Campania ed il Mezzogiorno tirrenico, rappresentano un’altra ‘Mecca’ inesplorata: quella della geotermia.
Tra gli svantaggi competitivi dell’industria italiana, infatti, c’è proprio l’alto costo dell’energia. Proprio su questo tipo di energie occorre investire in futuro. A partire da una fiscalità adeguata, di vero vantaggio per attira-re risorse dal Nord e dal resto del mondo.
Altre aree importanti sono la logistica con la capacità di collegare porti e ferrovie, interporti e retro porti. Ed ancora l’agroalimentare. La revisione di queste aree potrebbe frenare l’emigrazione dei giovani. Negli ultimi 15 anni, di fronte all’inesistenza di alternative, molta gente è andata via. Su questo occorre intervenire perché le proiezioni demografiche ci dicono che se non si inverte questa tendenza tra venti anni ci saranno 2 milioni di persone in meno ed il Mezzogiorno non sarà più la parte giovane del Paese ma la parte vecchia in tutto dipendente dal resto d’Italia
tratto da http://www.sudmagazine.it/blog/quando-il-sud-era-italiano/
Svantaggio che è stato in parte recuperato dalle regioni meridionali nella cosiddetta ‘stagione aurea’ del secondo dopoguerra. Ed ancora, se nel 1861, il Pil tra le due aree era simile, cioè pari a 100 per entrambi, dopo 150 anni, nel 2009, i redditi del Mezzogiorno risultavano pari solo al 59% del Centro-Nord.
E ancora: mentre il tasso di occupazione meridionale nel 1951 era pari all’81% del Centro-Nord, quasi 50 anni dopo, era fermo al 68,9%. La dinamica Nord–Sud, dall’Unità d’Italia ad oggi, è stata ricostruita dalla Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno nel volume intitolato 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud (1861-2011).
In un’intervista, il presidente della Svimez, Adriano Giannola, illustra com’è cambiato il quadro sociale ed economico del Paese in questo secolo e mezzo e spiega perché il Mezzogiorno oggi si pone come opportunità strategica per il sistema Italia.
Durante la cosiddetta ‘Età dell’Oro’, il Meridione mostra un’importante dinamicità nella performance economica.
Per la prima volta nella storia unitaria, il Mezzogiorno recupera almeno 20 punti del ritardo che aveva accumulato negli anni precedenti, a partire dagli inizi degli anni ’50 fino alla metà degli anni ‘70. Siamo nella fase dell’intervento dello Stato a supporto della realizzazione della riforma agraria e della politica di industrializzazione che, dal ‘57 in poi, viene sviluppata e che serve a tutto il Paese per costruire, sotto l’egida della politica regionale, un’industria di base fondamentale per il successo dell’industria manifatturiera del Centro-Nord.
In questo periodo si assiste ad una complementarietà tra la politica regionale che attiva l’economia del Mezzogiorno ed il successo dell’economia italiana che, grazie alla simbiosi tra Nord e Sud, permette il miracolo economico nazionale. Con un costo sociale rilevante dato dall’enorme migrazione interna.
Come si arriva alla crisi della crescita nelle due aree Nord-Sud?
Dagli anni ‘70 in poi, i vari shock petroliferi, valutari e salariali, hanno messo in grave crisi l’industria e si è registrata anche una carenza di soluzioni nelle politiche industriali. Il divario Nord-Sud è cresciuto fino ad oggi e si attesta sui 40 punti. Ma negli ultimi 20 anni, in particolare dal ‘98, abbiamo anche assistito ad una dinamica di crescita estremamente modesta sia al Nord che al Sud. Se andiamo ad osservare, infatti, l’industria manifatturiera, che è il cuore del sistema produttivo settentrionale, notiamo che ancor prima della crisi finanziaria mondiale del 2008, c’è una perdita di produzione. Non è così per la Germania che è cresciuta del 14% e per la Francia del 10%.
In un ‘sistema Italia’ che non cresce, ha ancora senso parlare di dualismo?
Il meccanismo dualistico esiste ancora, mantiene cioè il divario ma la tendenziale stagnazione strutturale è simile al Nord e al Sud. Da qui l’esigenza, come sostiene il Governatore della Banca d’Italia, della ripresa della crescita. Nell’opinione pubblica il Mezzogiorno è considerato il luogo dello spreco, la palla al piede del Paese. Liberarsene consentirebbe al Nord una grande ripresa. Questa sarebbe una grande illusione pericolosa e una tentazione di chi interpreta il federalismo fiscale come strumento per attuare una strategia di liberazione della parte ricca dalla parte che lo starebbe traendo a fondo. Senza rendersi conto, però, che la parte ricca è in crisi proprio come quella meno ricca.
Quale ruolo dovrebbe avere il federalismo fiscale?
Il federalismo fiscale può essere uno strumento utile di razionalizzazione e responsabilizzazione ma non può essere visto come una strategia che risolva i problemi. Un sistema del tutto legittimo in regime di unione monetaria potrebbe essere la tanta evocata e mai nata ‘fiscalità di vantaggio’ nelle regioni meridionali viste come sistema.
In realtà la causa del declino non è l’esistenza di un Mezzogiorno che frena il Nord ma la perdita di competitività del nostro sistema produttivo che deve essere indirizzato meglio. Scambiare le cause per gli effetti è molto pericoloso.
Il federalismo può essere un utile strumento ma visto come strategia di soluzione è una pericolosissima illusione.
In un mondo globalizzato, il Mezzogiorno con la sua rappresentazione mediterranea, potrebbe diventare la frontiera di un nuovo ciclo di sviluppo?
Non è semplice mantenere la competitività nel mondo globale alle condizioni attuali. Ma ci troviamo nel Mediterraneo, divenuto il centro dei traffici mondiali, in una posizione logistica privilegiata per intervenire e intercettare le opportunità create da questa fase di sviluppo del commercio mondiale.
Se non ci muoviamo presto lo faranno la Spagna, la Francia mediterranea ed il Nord Africa. Sull’area euro-mediterranea dobbiamo presentarci come i leader: dai trasporti alla ricerca e alla logistica, per intercettare Cina e India, in modo da consentire ai nostri porti, se bene attrezzati, di essere il luogo dell’interscambio. Dobbiamo anche riposizionarci nei settori tradizionali, come quello della produzione energetica.
In Basilicata, potremmo raggiungere il 20% del fabbisogno nazionale di petrolio e attorno ad esso sviluppare anche ricerca e salvaguardia dell’ambiente. In sostanza, occorre reinterpretare il terri-torio in un mondo che è cambiato. Da questo punto di vista il Mezzogiorno è una grande opportunità per l’Italia.
Quali saranno i nodi che il Mezzogiorno dovrà sciogliere negli anni futuri?
I nodi da sciogliere sono quelli della ‘governance’. Le regioni del Mezzogiorno e lo Stato centrale devono coordinare una strategia che abbia e si dimostri coerente ad un disegno di interesse nazionale. Dobbiamo ritrovare una strategia coerente che metta gli interessi dei singoli territori in un disegno più ampio, in una visione di lungo periodo.
Come frenare l’emigrazione di giovani dal Sud?
Sembra utopistico un significativo spazio per rilanciare in Italia il nucleare laddove abbiamo già delle potenzialità energetiche nel Mezzogiorno: la Basilicata rappresenta la ‘Mecca’ petrolifera; il Sud in generale quella delle fonti rinnovabili e sostenibili. Ed ancora, la Campania ed il Mezzogiorno tirrenico, rappresentano un’altra ‘Mecca’ inesplorata: quella della geotermia.
Tra gli svantaggi competitivi dell’industria italiana, infatti, c’è proprio l’alto costo dell’energia. Proprio su questo tipo di energie occorre investire in futuro. A partire da una fiscalità adeguata, di vero vantaggio per attira-re risorse dal Nord e dal resto del mondo.
Altre aree importanti sono la logistica con la capacità di collegare porti e ferrovie, interporti e retro porti. Ed ancora l’agroalimentare. La revisione di queste aree potrebbe frenare l’emigrazione dei giovani. Negli ultimi 15 anni, di fronte all’inesistenza di alternative, molta gente è andata via. Su questo occorre intervenire perché le proiezioni demografiche ci dicono che se non si inverte questa tendenza tra venti anni ci saranno 2 milioni di persone in meno ed il Mezzogiorno non sarà più la parte giovane del Paese ma la parte vecchia in tutto dipendente dal resto d’Italia
tratto da http://www.sudmagazine.it/blog/quando-il-sud-era-italiano/
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